Schumann Robert

Le Sinfonie

Le incisioni schumanniane di Bernstein – datate, al solito, New York anni sessanta e Vienna anni ottanta – presentano una caratteristica di fondo che le rapparenta alle altrettante integrali di Kubelik, e che si propone in forma più accentuata nella tarda versione viennese qui presenta in DVD: vale a dire la tendenza a far coesistere la più scrupolosa attenzione a tutti i dettagli della partitura con un’altrettanto accentuata libertà nei tempi e nel fraseggio.
Ne fanno fede soprattutto gli scherzi, caratterizzati, oltre che da una contrapposizione dinamica particolarmente marcata fra scherzo e trii, anche da sensibili oscillazioni agogiche all’interno delle singole sezioni. Ma anche, e forse ancor più, certe code: come quella del finale della Seconda, con un prolungato effetto di ritardando e diminuendo che imprime un carattere di estenuazione quasi decadente a una conclusione che altri intendono come trionfale; o, all’opposto, le strette quasi vorticose che concludono i primi tempi, e soprattutto i finali, delle altre sinfonie. E che dire del finale della Prima, dove alla stretta segue un drastico rallentando nelle battute conclusive? Simili procedimenti ricordano da vicino il Furtwängler degli anni eroici (es. Quinta di Beethoven del 30 giugno 1943 con i Berliner).
Sarebbe fuori luogo cercare qui lo splendore fonico, la coesione d’insieme e soprattutto la fluidità delle letture di Karajan, che da questo punto di vista è probabilmente insuperabile. Anzi, come spesso avviene nel Bernstein degli ultimi anni, si percepisce a tratti qualche lieve “rigidità di articolazioni” (si veda l’introduzione della Prima). L’autentico titolo di fascino di queste esecuzioni sta in compenso nello spirito di ricerca, nella vena rabdomantica che le percorre: insomma, nella spiccata tendenza a far leggere tra le righe, senza bisogno di alterare la lettera ne lo spirito delle partiture (anzi, semmai, mettendone in evidenza certi dettagli che altri lasciano in ombra), tutte le premonizioni di autori a venire che vi sono disseminate.
Così, ad esempio, il primo tempo della Seconda appare concepito in una luce brahmsiana, mentre l’adagio, l’unico grande adagio a melodia infinita che sia stato composto nel mezzo secolo dopo la Nona di Beethoven, ha già qualche sfumatura mahleriana. E più pre-mahleriani che mai si rivelano senza equivoci certi particolari dell’orchestrazione: ad esempio, nella Prima, il prolungato squillo dal triangolo che sottolinea, accrescendone la grandiosità, la ripresa in fortissimo del tema dell’introduzione alla fine dello sviluppo (in Mahler, lo stesso effetto si troverà nelle battute conclusive del finale della Prima); o, nell’ultimo movimento, l’attimo di estasi naturalistica quasi fuori del tempo, quando, prima della riesposizione, al segnale lontano e quasi languido dei corni si sovrappone il trillo del flauto. Intuizioni timbriche che, si badi, risalgono proprio a Schumann e non ai noti “ritocchi” mahleriani, perché Bernstein è fra i direttori che seguono più scrupolosamente la partitura originale.

Sinfonia n. 1 in si bemolle maggiore per orchestra “La Primavera”, op. 38

La prima idea ispiratrice della Sinfonia in si bemolle op. 38 Schumann l’ebbe da un’ode sulla primavera del poeta Adolf Böttiger, secondo quanto risulta dal frammento di una lettera del musicista conservato nella civica biblioteca di Lipsia. La poesia che inizia con le parole «Nella valle si leva la primavera» aveva anzi convinto il compositore in un primo tempo a dare il titolo di «Sinfonia della primavera» all’op. 38, rapidamente scritta nel cuore dell’ inverno del 1841 ed eseguita la prima volta al Gewandhaus di Lipsia sotto la direzione di Mendelssohn il 31 marzo dello stesso anno. Ma il progetto originale, anche se prossimo a concretarsi quando Schumann appose al primo tempo il titolo di «Risveglio della primavera» e all’ultimo quello di «Addio alla primavera», non lasciò tracce nelle edizioni curate dallo stesso autore. Questi, pur sensibile a certi richiami di stampo romantico letterariamente allusivi, non volle sottoscrivere un preciso titolo illustrativo alla Prima Sinfonia. Ciò non impedì che il contenuto poetico fosse conosciuto dal pubblico, procurando a Schumann una fama che fino allora egli non aveva mai raggiunta.
Il compositore si mostrò particolarmente soddisfatto di questo lavoro, anche perché fu scritto in uno stato di beatitudine psicologica, subito dopo il tanto sospirato e contrastato matrimonio con Clara Wieck. A costei Schumann suonò al pianoforte alcuni brani dell’appena abbozzata sinfonia; il commento di Clara fu raccolto nel suo diario, in cui si legge: «Non finirei mai di parlare delle gemme, del profumo di viole, delle fresche foglie verdi, degli uccelli svolazzanti che si sentono rivivere ed agitarsi attraverso la musica, nella sua forza giovanile». Infatti l’op. 38 è pervasa da una freschezza e da una spontaneità melodica particolarmente felice e da sentimenti intonati alla contemplazione della natura, come ammetteva l’autore quando dichiarava che la Prima Sinfonia deve la sua esistenza «all’impulso della primavera, che solleva l’uomo anche nell’età più avanzata e ogni anno lo coglie con rinnovata sorpresa».
La sinfonia si schiude con una esuberante fanfara di trombe e di corni, cui fa eco l’intera orchestra in un’atmosfera di festosa e giubilante solennità. Il tema, trasformato in un ritmo brioso quasi di danza, è ripreso dai violini e dai flauti. L’oboe introduce una nuova melodia ampiamente sviluppata, prima che la ripresa della frase iniziale porti alla vigorosa conclusione del primo tempo. Il Larghetto successivo è tipicamente schumanniano per la delicatezza tematica, dapprima realizzata dai violini e poi affermata in modo più perentorio dal corno e dall’oboe soli. Il musicologo inglese Percy Young interpreta questa serena melodia come l’espressione dei sentimenti affettuosi di Schumann per Clara e ritiene che nella sua atmosfera notturna essa si pone in analogia con il verso di Milton: «The evening star, love’s harbinger» (La stella della sera, messaggera d’amore). Verso le ultime battute del Larghetto si avverte un cambiamento nel colore dell’orchestra, annunciato dai pastosi accordi dei tromboni, quasi ad indicare con morbidezza il passaggio al terzo tempo, un vigoroso e incisivo Scherzo, il cui tema principale è una variante della lenta melodia del movimento precedente.

Robert Schumann

L’ultimo tempo (Allegro animato e grazioso) è un brillantissimo e vivace contrappunto di temi a ritmo di danza che si rispondono l’uno con l’altro in un gioco strumentale di elegante fattura, con impasti di suono di penetrante fascino espressivo (si pensi, a mo’ di esempio, a quello tra il flauto e il corno prima della entusiasmante «chiusa» che sembra preludere alla fantasiosa «Seconda sinfonia»). Forse per rettificare qualche interpretazione poco pertinente di questa sua composizione, Schumann scrisse a proposito del tempo finale della Prima Sinfonia: «Mi piace pensare ad esso come ad un addio della primavera, perciò non vorrei che venisse eseguito in maniera troppo frivola».

Sinfonia n. 2 in do maggiore per orchestra, op. 61

Prima di parlare di un qualsiasi lavoro sinfonico di Schumann è d’obbligo trattare, almeno con un accenno, alle questioni ancora controverse del valore della sua tecnica orchestrale e del “beethovenismo”: è però evidente che le due questioni così strettamente si legano da ridursi a una. Per un genio del colore e della sfumatura quale Schumann è nei lavori per il pianoforte, si diceva già nell’Ottocento che il suo stile orchestrale è impersonale e uniforme e che i dislivelli espressivi e l’aspra sonorità di molti suoi “pieni” d’orchestra dipendano da un’insufficiente imitazione di Beethoven: e proprio la Seconda Sinfonia è forse la sua opera sinfonica che più dipende da Beethoven, almeno esteriormente, come vedremo.
Perciò da oltre un secolo grandi direttori, i virtuosi dell’effetto ma anche quelli stimati per il rigore, tra i maggiori Mahler, Weingartner, Nikisch, Celibidache e altri, hanno corretto, dimagrito, arricchito, insomma hanno “migliorato” l’orchestra di Schumann: Mahler fece addirittura 352 correzioni, tra piccole e sostanziali, alla Seconda Sinfonia (e più di 400 alla Terza e alla Quarta)! Ma già alla prima esecuzione della Seconda al Gewandhaus di Lipsia diretta da Mendelssohn nel novembre 1846, Schumann fu insoddisfatto, e perfino irritato dal lavoro dell’amico fedele, ma poi egli stesso intervenne sulla partitura manoscritta e corresse. E perfino Eduard Hanslick, che aveva Schumann come suo artista prediletto tra i contemporanei (lo considerava il baluardo contro la corruzione musicale dei “neotedeschi”), era perplesso di fronte alle Sinfonie: e la Seconda era per lui un lavoro significativo, sì, ma «nelle singole parti disuguale come elaborazione e disuguale per valore». E questo era un giudizio di forma e di tecnica. Ora, che la sapienza e la sensibilità orchestrali di Schumann siano state pari a quelle dei romantici suoi contemporanei, i vicini a lui nello spirito o quelli lontani, nessuno vuole affermare, ma direi, però, che ci è chiaro che le incertezze e gli squilibri della sua scrittura strumentale nascono propriamente non da inesperienza tecnica (Schumann era artista troppo serio e grande per operare improvvisando), ma da una sovrapposizione dei suoi progetti sul sinfonismo, progetti di continuità formale e anche di innovazione
poetica; nascono cioè da una volontà creativa, intimamente contraddittoria, di ordine classico e di eccessi passionali. Come era naturale, in lui la desiderata oggettività delle “grandi forme” strumentali, studiate e ammirate, e il grande pathos soggettivo avevano direzioni opposte.
Segno di queste contrastanti attitudini nel genio di Schumann è anche la singolare disposizione cronologica dei suoi lavori maggiori, che si dispongono a gruppi: come se le intenzioni dell’artista si siano concentrate di volta in volta sui caratteri propri e sulla tecnica di un solo “genere” musicale (ed è quello che probabilmente avvenne). Così, ad esempio, come gli anni tra il 1835 e il ’39 furono gli anni del pianoforte, come il 1840 fu il celebre anno dei Lieder (138, quasi tutti capolavori!), nel 1841 e nel 1845-46 ci furono soprattutto esperimenti sinfonici. La Seconda Sinfonia fu abbozzata nel dicembre 1845 (dopo il Concerto in la minore), completata nel 1846, ed eseguita da Mendelssohn, abbiamo visto, al Gewandhaus di Lipsia il 5 novembre 1846.
Schumann stesso dichiarò più di una volta che la sua Seconda aveva segnato la vittoria artistica di terribili sofferenze interiori (quelle che poi lo avrebbero abbattuto). Realmente nella musica noi sentiamo il combattimento psichico, l’impeto di una forza interiore e l’esultanza della vittoria, anche in qualche segno di esteriorità e di enfasi, di stile “beethoveniano” imposto all’esterno su sentimenti del tutto differenti dall’eroismo. Perfino l’impianto tonale in do maggiore, simbolo di solidità e sicurezza, ci suona a momenti un vanto poeticamente ingenuo più che una necessità espressiva. Le qualità alte di questa musica non sono le sue architetture o la sua oratoria sonora, sono invece le originalità formali, perfino le genialissime incoerenze, che avvicinano questa che si proponeva di essere una Sinfonia classica, a un poema sinfonico romantico (e come esempio della consapevole indipendenza di Schumann nella scrittura sinfonica ricordiamo anche che, in un primo momento, la sua Quarta Sinfonia egli voleva intitolarla “Sinfonia Fantasia”).
Nella costruzione i due Allegro, il primo tempo e l’ultimo, si corrispondono simmetricamente, nella libertà delle forme e nell’entusiasmo dello spirito: anzi, il principale dei temi, quello con cui la Sinfonia si inizia (un intervallo ascendente di quinta: do/sol), compare anche nel Finale e lo conclude. In tutti e due i casi il regolare piano tematico è scomposto dal sopraggiungere di motivi e di schemi ritmici nuovi, secondo una dinamica non propriamente dialettica ma, si direbbe, di umori e di improvvisazione.

Oskar, re di Svezia e Norvegia

Lo Scherzo, un “perpetuum mobile”, è tutto percorso da un’energica agitazione come da una bufera di vento primaverile (primi violini con l’allegra risposta di flauti e fagotti). Nei due Trio, separati dalla concitata ripresa del tema aereo, è
ammirevole la capacità di distinguere con il ritmo, e con i colori due stati d’animo tra loro simili di serena letizia. Anche nella conclusione dello Scherzo riappare il tema di quinta ascendente.
L’Adaglo espressivo in do minore è il momento alto di tutta la Sinfonia (o meglio, è uno dei grandi momenti lirici di Schumann) e ci dona una di quelle melodie struggenti (violini primi, poi l’eco malinconica dell’oboe), che portiamo con noi a lungo dopo l’ascolto. È un canto a intervalli in alternanza larghi (di sesta e di settima) e brevissimi (un semitono), ascendenti e discendenti, che instancabilmente ritorna con un respiro sempre più ampio e commosso, percorso da brividi di felicità (le delicate ornamentazioni dei legni sopra il canto degli archi). Questa è musica del grande musicista-poeta che tutti amiamo.

Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore per orchestra “Renana”, op. 97

Nel settembre del 1849 Schumann si era trasferito con la famiglia a Düsseldorf provenendo da Dresda, dopo anni tormenti e faticosi per la composizione di Genoveva, delle Scene dal Faust, del Manfred, per il turbamento causato dalla morte di Mendelssohn, per l’inquietudine causata dalla rivoluzione del 1848-49.
Il compositore aveva quasi quarant’anni, veniva a Düsseldorf con la carica di Direttore dei concerti, accolto con calore dall’élite culturale della città: il posto di Musikdirektor con una orchestra a sua disposizione, le aspettative degli abbonati, il prestigio della nuova sede, dovettero naturalmente spingere il compositore nel solenne campo sinfonico, non più frequentato dopo la Seconda Sinfonia del 1846; nasce così in un clima di fiducioso rinnovamento, ignaro del prossimo e definitivo crollo mentale, la Terza Sinfonia in mi bemolle, nota fin dai primi tempi con l’appellativo di “Renana”. La prima esecuzione, con l’opera ancora manoscritta, avvenne nel concerto del 6 febbraio 1851 e suscitò accoglienze trionfali, ripetute poco dopo a Colonia; grande impressione la Sinfonia suscitò anche a Rotterdam, il 1 dicembre 1853, durante la tournée olandese intrapresa da Schumann con la moglie Clara, e fino ad oggi la “Renana” è rimasta forse la più amata delle quattro Sinfonie, la più unitaria e compiuta nel pensiero creativo.
La Terza Sinfonia fu abbozzata e strumentata in un mese di lavoro fra il 2 novembre e il 9 dicembre 1850; il quarto movimento recava in origine la didascalia “Im Charakter der Begleitung einer feierlichen Ceremonie” (“Nel carattere di accompagnamento a una cerimonia solenne”), e con precisione ancora maggiore Schumann dichiarò di essere stato influenzato dal rito con cui il vescovo di Colonia von Geissel fu innalzato alla porpora cardinalizia nel venerabile duomo, sacro alla storia tedesca e all’arte gotica. In seguito il compositore lasciò cadere ogni titolo, ogni indicazione extramusicale; ma un po’ come nell’Eroica di Beethoven nei confronti del generale Bonaparte, così

nella Terza di Schumann il Reno, anzi la «religione del Reno» come l’ha chiamata Bortolotto, resta il fòmite incancellabile dell’ispirazione, la regione spirituale in cui fermentano i sentimenti e le fantasie. Lo stesso Schumann confermava indirettamente questa polarità tutta ideale quando nel marzo 1851 scriveva all’editore Simrock di Bonn che anziché affidare l’opera a uno dei tanti editori sotto mano a Lipsia, aveva preferito «vedere apparire proprio qui ai bordi del Reno (cioè a Bonn) una grande opera, e proprio questa Sinfonia che forse qua e là rispecchia un pezzo di vita reale».
La «religione del Reno» schumanniana ha il suo altar maggiore nella Terza Sinfonia; lo si potrebbe circondare con tempietti votivi, quali i Lieder “Sonntags am Rhein” dell’op. 36 o “Im Rhein, im heiligen Streme” dalla Dichterliebe di Heine; ci si potrebbe aggiungere il secondo movimento della Fantasia op. 17 per pianoforte, nella stessa tonalità di mi bemolle e con patenti affinità tematiche; la comune cornice della tonalità, il ritmo di tre quarti, la simpatia per temi basati sulla triade fondamentale individuano un percorso che muove dall’Eroica di Beethoven, dove l’eroismo è tutto astratto, ideale, energia pura: in Schumann l’eroe si è concretizzato nella storia e geografia del padre Reno, del duomo di Colonia che vi si specchia, della nazione tedesca che avrebbe potuto esservi consacrata.
È soprattutto il primo movimento che non maschera il suo riferimento a Beethoven, ma più nei temi che nel reale sviluppo: è sintomatico infatti che il momento supremo di tutta la pagina, quando il tema d’apertura sfolgora nell’unisono dei quattro corni entro l’armonia di mi bemolle tenuta in pianissimo dagli altri strumenti, avvenga nella preparazione della ripresa, in un raccordo strumentale, non deputato a ricevere simili epifanie; è un po’ la mentalità del poema sinfonico che perfino nel “classico” Schumann viene a turbare i recinti della forma-sonata. Nel secondo movimento il Reno si spoglia dei suoi attributi mitici e indossa abiti borghesi, quelli di salubri passeggiate domenicali, allietate da robuste bevute.
Il terzo movimento (Nicht schnell, Non veloce) precorre nel tenero clima espressivo il tipo dell'”Andantino” o “Allegretto” brahmsiano; il ruolo dell’Adagio, finora scoperto, è assolto dal quarto movimento (Feierlich, Solenne) che sarebbe giusto considerare un’ampia introduzione al Finale: le arcaiche sonorità dei tromboni, impiegati qui per la prima volta, i temi dall’austero profilo bachiano, la densità dell’intreccio polifonico, caricano di solennità storica questa pagina, legata nella fantasia di Schumann al fascino del rito cattolico nel duomo di Colonia.

Leonard Bernstein

Dal suo ultimo accordo, in un opaco mi bemolle minore, si sprigiona il tema in maggiore del movimento finale: che è di vivida vena popolaresca, con toni leggeri da Scherzo mendelssohniano irrobustiti verso la fine in sonori giubili di tutta l’orchestra, in architettonica risposta all’esordio del primo movimento.

Sinfonia n. 4 in re minore per orchestra, op. 120 (in due versioni)

L’inizio di quella svolta compositiva che con la Prima Sinfonia avrebbe aperto la strada all’entusiasmo creativo dell'”anno sinfonico”, il 1841 (due Sinfonie compiute, una terza abbozzata, oltre alla “Sinfonietta” Ouverture, Scherzo e Finale e alla Fantasia per pianoforte e orchestra in La minore, che sarebbe più tardi diventata il primo movimento del Concerto per pianoforte), avviene in Schumann sotto un duplice impulso, nel segno di un allontanamento tanto dal modello dell’ultimo Beethoven quanto dalle “divine lunghezze” di Schubert. Da un lato vi è la volontà di perseguire una concezione unitaria del processo sinfonico per via essenzialmente monotematica, con un procedimento ciclico nel quale le trasformazioni di una figura fondamentale, quasi motto della composizione, si generano l’una dall’altra, senza contrapporsi; dall’altro lato
agisce il desiderio di sperimentare una sintassi poetico-musicale di segno simbolico, contemperando aneliti e slanci in una fioritura estemporanea di divagazioni fantastiche dal timbro accesamente romantico ma tendenti all’eloquenza della musica assoluta. La Prima Sinfonia è da questo punto di vista esemplare: il supporto programmatico previsto all’origine (una poesia “romantica” dedicata alla primavera) venne abbandonato allorché i riferimenti extramusicali si chiarirono in elementi compositivi: quel che rimase da ultimo fu la disposizione ciclica adombrata dal programma, affilata nella logica formale e materializzata nella traduzione sonora.
La genesi della Sinfonia in Re minore fu assai più problematica, tanto da abbracciare di fatto l’intero periplo dello Schumann sinfonista. Iniziata il 30 maggio 1841, fu portata a compimento il 9 ottobre dello stesso anno ed eseguita per la prima volta il 6 dicembre 1841 al Gewandhaus di Lipsia: non sotto la direzione del titolare Mendelssohn, che dell’amico aveva già presentato il 31 marzo con grande successo la Prima, bensì del Konzertmeister David. Essa ottenne consensi assai modesti: anche perché oscurata – e la cosa non deve sorprenderci troppo considerando la moda del tempo – da una esibizione a due pianoforti, avvenuta la stessa sera, di Franz Liszt e Clara Schumann, impegnati a suonare l’Exameron-Duo (una serie di variazioni virtuosistiche su un tema di Bellini composte da sei allora celebri pianisti parigini). Schumann ritirò la partitura, già pronta per la stampa, mettendola da parte. In seguito nacquero e furono pubblicate la Sinfonia n. 2 in Do maggiore op. 61 (1846) e la Sinfonia n. 3 in Mi bemolle maggiore op. 97 detta “Renana” (febbraio 1851). Fu a questo punto, nel corso del 1851, che la partitura della Sinfonia in Re minore venne ripresa in mano e rielaborata. In questa nuova veste venne presentata al Festival del Basso Reno di Düsseldorf nel 1853 e, stampata subito dopo a Lipsia, divenne la Quarta Sinfonia con il numero d’opera 120. Fu in pratica l’ultimo grande successo di pubblico ottenuto in vita da Schumann come direttore d’orchestra e compositore.
Delle quattro, la Sinfonia in Re minore è senza dubbio la più sperimentale e ai nostri occhi moderna.
Sul frontespizio della partitura Schumann indicò che il lavoro consisteva di Introduzione, Allegro, Romanza, Scherzo e Finale “in un solo movimento”; al tempo della revisione, in parte correggendosi, pensò di introdurre il titolo “Fantasia sinfonica”, che gli sembrava più adatto a un’opera tutta contesta di legami tematici tra un movimento e l’altro e senza interruzione fra gli stessi: un po’ come aveva fatto Mendelssohn nella sua Sinfonia n. 3 “Scozzese” (1842). Per il resto la revisione si appuntò soprattutto sulla strumentazione, rinvigorendola e, secondo alcuni, appesantendola. Le presunte inefficienze e debolezze di Schumann come orchestratore furono denunciate dalla critica già lui vivente (e non solo dalla critica: l’ammiratore Brahms ne condivideva molte riserve, e Mahler ritenne addirittura necessario intervenire sull’orchestrazione); oggi ci paiono non soltanto tratti idiomatici del linguaggio schumanniano ma anche una conquista che avrebbe lasciato un’impronta: nella Quarta, soprattutto nella concezione della prima versione originale.
1. Moderatamente lento, Vivace
L’intero primo movimento si basa sullo sviluppo di una frase tematica esposta nell’Introduzione (Moderatamente lento) da violini secondi, viole e fagotti su un pedale sospeso di dominante e poi estesa a tutta l’orchestra con densità polifonica. E’ una frase aperta e distesa, che procede per gradi congiunti con pensosa gravità, impennandosi poi nei primi violini in un inciso più mosso, che attraverso uno “stringendo” conduce direttamente al tempo Vivace: è questo inciso (quartine di semicrome alternativamente staccate e legate) a costituire il materiale tematico di tutto il movimento. Più che di un tema nel senso classico, si tratta di una figura aperta, slanciata e piena di energia, resa ancora più dinamica dalle sincopi e suscettibile di continue, minute variazioni. Essa occupa tutta l’esposizione.
Nello sviluppo, che presenta accenni di trattamento fugato, le viene contrapposta una linea melodica di marcata contabilità e dolcezza, che attenua ma non interrompe la foga di una corsa che sembra, nel suo anelito, non doversi fermare mai.
2. Romanza: Moderatamente lento
E invece il discorso si sospende e, come voltando pagina, conduce direttamente in tutt’altro clima espressivo. La parentesi lirica della Romanza è l’altra faccia del mondo poetico di Schumann: quella intima, delicata, tenue. L’oboe raddoppiato dai violoncelli intona in La minore una melodia malinconica, quasi trasognata, che viene richiamata alla realtà da una ripresa variata del tema dell’Introduzione (archi). Poi si dispiega in Re maggiore una arabescata melopea in terzine del violino solo, d’infinita dolcezza, che dona luce e consolazione. La ripresa del tema in minore dell’oboe chiude nostalgicamente la breve ma intensa pagina.

Robert Schumann

3. Scherzo (Vivace), Trio
E la corsa riprende, ancora più fremente, nello Scherzo, squassata dalle ondate degli archi su interiezioni “sforzate” dei fiati. Anche qui il legame tematico con il primo movimento è evidente: Schumann lavora circolarmente su un materiale monotematico, mostrandocene le metamorfosi e trasformandone il carattere timbrico e ritmico.
Nel Trio ritorna la figura arabescata della Romanza, ora però integrata nella nuova scrittura orchestrale e armonica (da Re minore a Si bemolle maggiore). Si ripete lo Scherzo, poi nuovamente il Trio. A questo punto, quando ci si aspetterebbe la definitiva ripresa dello Scherzo secondo la consueta formula A – B – A – B – A, ecco la sorpresa…
4. Lento, Vivace, Più presto
In “pianissimo”, su atmosfere brumose, tremolanti, sospeso sulla dominante e carico di presagi, attacca in modo inatteso un Lento nel quale la nota figura in semicrome dei violini primi, leggera come un soffio, è violentemente contrastata da drammatici appelli di corni, trombe e tromboni, in “crescendo” e “stringendo”. Questa nuova “Introduzione”, che riafferma il tratto ciclico della Sinfonia, immette senza soluzione di continuità nel veemente e decisamente liberatorio tripudio del Finale, sempre più incalzante, da ultimo quasi colmo d’ebbrezza..
L’analogia con il passo corrispondente del Finale della Quinta Sinfonia di Beethoven non può sfuggire. Non vi è però più niente di eroico e di fatale in questo rispecchiamento formale: la luce che squarcia di colpo le nebbie di un paesaggio ossianico, che è anche un paesaggio-simbolo dell’anima romantica, non scandisce il battere di un destino, addita una meta lontana, all’infinito.