Shostakovich Dmitri

Concerti per violoncello e orchestra n. 1 e n. 2

Il primo concerto di Shostakovich è uno dei brani più belli dell’intera incisione. Lettura ottima della partitura sia da parte del noto violoncellista Mischa Maisky che dalla London Symphony Orchestra ottimamente diretta da Michael Tilson Thomas. Audio buono ma un po’ artefatto per i miei gusti. Registrazione effettuata nel 1995. Altamente raccomandato.

Concerto per violoncello e orchestra n. 1 in mi bemolle maggiore op. 107

Dmitrij Shostakovich può senza alcun dubbio essere considerato l’ultimo grande “compositore classico” del Novecento. Entrato nel 1919 al Conservatorio di Pietroburgo, studia con Leonid Nikolaev e Maximilian Stejnberg, che infondono nel giovane musicista la passione per i grandi compositori classici dell’Ottocento. Il giovane allievo viene inoltre preso sotto la rassicurante ala protettrice di Alexandr Glazunov, allora direttore del Conservatorio e prosecutore della grande stagione sinfonica russa appena terminata, incarnata da Cajkovksij. Solo prendendo atto di questo percorso formativo si potrà comprendere come mai un compositore nato nel 1906 e morto nel 1975 abbia potuto produrre quindici Sinfonie, altrettanti Quartetti per archi, otto Concerti per strumento solista, una prima serie di ventiquattro Preludi per pianoforte, seguita da una seconda serie (di evidente ascendenza bachiana) di ventiquattro Preludi e Fughe.
Bisogna però aggiungere che lo studente Sostakovich non si nutre solamente di grandi classici, ascolta e studia anche musiche di autori contemporanei (Honegger, Hindemith, Stravinskij, Schönberg) spesso presenti nei concerti programmati in una città culturalmente vivace, come poteva essere la Pietroburgo dell’epoca. Considerando quindi questi due poli di attrazione, è chiaro come Shostakovich non possa certo essere definito un accademico cultore della tradizione classica, nutrirà un genuino interesse per la sperimentazione e per la ricerca di moduli d’espressione alternativi. Tuttavia non si tratterà mai di uno sperimentalismo astratto, quanto invece di un mezzo per raggiungere un fine ben preciso: l’espressività della musica.
Il Primo Concerto per violoncello e orchestra op. 107, composto nel 1959 in soli quaranta giorni, è stato dedicato dall’autore al grande violoncellista Mstislav Rostropovic, che lo presentò al pubblico il 4 ottobre dello stesso anno nella Sala Grande della Filarmonica di Leningrado, sotto la direzione di Evgenij Mravinskij. Questo originale lavoro è suddiviso in quattro movimenti: al primo tempo (di considerevoli dimensioni) si contrappongono gli altri tre che si susseguono senza soluzione di continuità.
Il primo movimento rispetta, pur con le dovute eccezioni, lo schema classico della forma-sonata: avremo quindi una struttura bitematica e tripartita. Il Concerto si apre con la comparsa improvvisa (non esiste infatti alcuna introduzione) di un breve tema, il cui incipit viene poi sottoposto ad ingegnose variazioni. Non si tratta di una vera e propria melodia, quanto di un “motto” musicale, quasi un gesto sonoro, secco e tagliente, che informerà di sé tutta la composizione. L’autore lo ha infatti così disegnato, semplice ed essenziale, proprio per poterlo poi sottoporre a tutta una serie di spericolate ed originali mutazioni.
Segue una seconda idea melodica, più cantabile, dove è possibile notare l’influenza esercitata sull’autore dalla musica popolare russa. Non si tratta certo della citazione di melodie autenticamente popolari, quanto dell’elaborazione di movenze e colori propri della musica russa. Nello sviluppo che segue assistiamo alla contrapposizione, al dialogo tra queste due principali idee melodiche, che si confrontano e si sovrappongono all’interno di un denso tessuto contrappuntistico. Arriviamo quindi alla ripresa, dove i due temi vengono ripresentati uno dopo l’altro, fino alla conclusione del movimento, contrassegnata dalla presenza del motto musicale ormai per noi familiare.

Mischa Maisky

Il secondo tempo ci trasporta in un clima sonoro completamente differente, sottolineato da un intenso lirismo, sincero ed affettuoso, che però non trasborda mai nel sentimentalismo affettato. Dopo una breve introduzione orchestrale compare infatti un’ampia melodia presentata dal violoncello nella regione acuta: nobile disegno sonoro dai contorni popolareggianti, che poi l’autore sottopone ad una breve ma efficace elaborazione. In una nuova tonalità ci viene quindi proposto un secondo tema, anch’esso molto cantabile, che occupa tutta la sezione centrale e che ha il suo culmine in una perorazione in fortissimo affidata agli arabeschi del violoncello solista, sostenuti da un denso tappeto orchestrale. Il movimento si chiude con la ricomparsa del tema d’esordio, affidato ai suoni armonici del violoncello, che liberamente canta come sospeso in una irreale atmosfera creata dalle volute degli archi e dai dolci rintocchi della celesta.
Segue quindi, senza soluzione di continuità, il terzo movimento, un’ampia cadenza affidata al solo violoncello. In questo lungo monologo fanno la loro comparsa diverse melodie, desunte prima dal secondo, poi dal primo tempo. Si tratta di un brano denso di difficoltà tecniche, alla cui stesura avrà probabilmente collaborato anche lo stesso Rostropovic, dedicatario del Concerto ed intimo amico del compositore.
Al termine di questa lunga cadenza attacca subito il finale, in forma di Rondò (a-b-a-c). Ancora più evidente è qui il rapporto di Shostakovich con la musica popolare russa, presente sotto forma di slancio vitale e pulsione ritmica, non esente da tratti che si potrebbero definire di vera e propria ebbrezza dionisiaca. Talmente veloce ed imprevedibile è il susseguirsi delle invenzioni, che sarebbe inutile descrivere questo Rondò. Sembra quasi che l’autore abbia detto tutto, quando improvvisamente ricompare il motto musicale che aveva aperto il Concerto, questa volta presentato in un tempo sensibilmente più veloce, coerentemente con lo spirito del Rondò. Un’ultima corsa finale, un’ultima impennata ed il Concerto si avvia speditamente verso una solare e gioiosa conclusione.

Concerto per violoncello e orchestra n. 2 in sol maggiore op. 126

Dei due Concerti per violoncello e orchestra composti da Shostakovich il Secondo in sol minore op. 126 è il meno noto e il meno frequentemente eseguito, nonostante si faccia apprezzare più dell’altro per originalità, come lavoro estremamente significativo del tardo stile del suo autore. La data di composizione è il 1966: anno sul finire del quale, il 25 novembre, venne presentato per la prima volta nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca dal violoncellista Mstislav Rostropovic (che ne era il dedicatario, come lo era stato del Concerto n. 1 op. 107, del 1959) con l’Orchestra Sinfonica di Stato dell’URSS diretta da Evgenij Svetlanov. Esso riflette la posizione di isolato rilievo del musicista nei suoi difficili rapporti con il potere sovietico e segna, dopo le composizioni celebrative del dopoguerra, un ritorno a quell’attitudine profondamente meditativa, venata di malinconico intimismo, che costituisce l’altro aspetto, non meno fondamentale e costante, della personalità musicale di Sostakovic. Forse stimolato dal lavoro di riorchestrazione del Concerto per violoncello di Schumann, realizzato nel 1963, Shostakovich compone un’opera liberamente articolata in tono rapsodico, rinunciando tanto agli elementi del folclore quanto alla fastosità di una scrittura grandiosamente sinfonica: tratti, questi, brillantemente sviluppati nel Primo Concerto. Tratto caratteristico del Secondo è invece la ricerca di una espressività più calda e intima, per così dire più sotterranea e velata, che si traduce anche nella tendenza ad assottigliare l’organico in dimensioni cameristiche.
Questa generale tendenza a una voluta riduzione dei mezzi talvolta sfociante in una sorta di divisionismo timbrico assai estroso, non impedisce che i passaggi tra un episodio e l’altro siano contrassegnati da un più ampio respiro sinfonico, in una sorta di liberazione delle forze latenti, aggressivamente ritmiche. La prevalenza del tono discorsivo, che sembra scaturire da esigenze liberamente associative più che da preventiva organizzazione strutturale (donde l’insolita procedura dei movimenti: Largo – Allegretto – Allegretto), conduce sovente alla sovrapposizione di scelte stilistiche disorientanti se non stranianti, suggerendo, soprattutto nell’uso della melodia e dell’armonia, una ingegnosa contaminazione di scherzoso accademismo romantico e di improvvisa, severa solennità: quest’ultima attraversata dagli squarci taglienti di un linguaggio imprevedibilmente amaro e proiettata negli orizzonti di un lucido pessimismo. Non va certo dimenticato, tra i pregi di quest’opera assai particolare, il contributo offerto alla parte solistica, anzitutto sotto il profilo tecnico, dal grande violoncellista che ne è il dedicatario. La collaborazione con Rostropovic fu intensa e produttiva dal punto di vista creativo, sì da estendersi a tutta la composizione, fino a permearla da cima a fondo: anche quando non si esibisce virtuosisticamente, il solista rimane il punto di riferimento, la guida lungo tutta la partitura; senza però diventare mai il protagonista assoluto, Par di intravedere anche qui una specie di gioco tra dare e avere, ricordare e proporre, concedere e negare, che è poi la cifra stilistica più propria del lavoro: un gioco condotto dai due artisti ad altissimi livelli di gusto e di intelligenza.
Il tono generale di introspezione è dominante nel movimento iniziale, un Largo che prende vita gradualmente dall’intervallo di semitono proposto dal violoncello solo; dalla scrittura a due parti (il solista con gli archi gravi) si produce un progressivo allargamento che anela, senza raggiungerla, alla pienezza orchestrale. L’episodio centrale è ravvivato dal ritmo scandito dagli archi e dagli strumentini su una figura di semicrome che dal solista circola in tutta l’orchestra: sorta di ebbrezza motoria senza meta, non sapresti dire se ironica o tragica. Dopo il culmine di un recitativo del violoncello (ora bicordi con l’arco, ora accordi in pizzicato) violentemente “contrappuntato” dalla grancassa, che suona insieme grottesco e drammatico, la ripresa riconduce al tono iniziale, in un lento spegnersi intriso di tristezza e di solitudine.

Michael Tilson Thomas

Il secondo tempo è un breve Allegretto di rigidità quasi meccanica, con larvali apparizioni di suggestioni popolaresche, freddamente briose. Il clima per così dire invernale si riscalda a poco a poco in una schiarita che lascia balenare in controluce un paesaggio romantico, nel quale svettano i corni in dialogo amoroso con il solista. Con una fanfara sostenuta solamente dal rullo del tamburo, ai corni spetta il compito di iniziare il terzo movimento, ancora un Allegretto, evidente prolungamento del precedente, che porta a conclusione il Concerto. Vi accadono molte e diverse cose, tenute insieme da una frase cadenzante del violoncello ironicamente sospesa su un trillo, in sol maggiore, come ritornello di uno sghembo rondò. Nel momento in cui la perorazione di tutta l’orchestra sembrerebbe costituire la sigla finale di un convenzionale trionfo, un congedo inatteso ci riporta alla verità di un dolore forte, non esibito ma sospeso: il violoncello solista indugia su un pedale grave, quasi rientrando nel grembo oscuro dell’anima, scortato da un lugubre accompagnamento di percussioni.