Skrjabin Alexsander

Sinfonie 1 – 2 – 3 – Le Poème de l’exstase – Pométhée

Skrjabin: Symphonie n. 1, 2, 3 – Le Poème de l’extase; Prometeo, il poema del fuoco

Introduzione

Persino le teorie artistiche di quell’eccezionale egoista che era Wagner appaiono come proposte assai modeste – addirittura convenzionali – se vengono paragonate alle idee del compositore russo Alexander Nikolajevic Skrjabin: dovrà avvenire una fusione di tutte le arti, ma non teatrale come quella di Wagner. L’arte deve unirsi alla filosofia e alla religione in un’unità indivisibile per formare un vangelo nuovo che sostituirà quello vecchio al quale siamo sopravvissuti. Nutro la speranza di creare un tale “mistero”. Per questo sarebbe necessario costruire una specie di tempio – forse qui, forse nella lontana India. Ma l’umanità non è pronta per tutto ciò. L’umanità ha bisogno di prediche. Deve essere guidata verso sentieri nuovi. E io predico. Una volta ho predicato persino

da una barca come Cristo. Ho una piccola cerchia di persone che mi comprendono perfettamente e mi seguono. In particolare un pescatore. È una persona semplice e magnifica -.
Skrjabin morì prima di portare le sue innovazioni alla loro conclusione logica, e di conseguenza il suo impatto sui compositori successivi rimase limitato. Pur essendo sostanziale, l’insieme di composizioni ch’egli ci ha lasciato ha l’aria di qualcosa di incompiuto e suscita le speculazioni piuttosto che soddisfarle. Questa musica è sempre individuale, sempre affascinante e spesso realizzata con straordinaria brillantezza tecnica, a volte ripugnante nella sua atmosfera di abbandono sensuale e di esagerazione egocentrica, ma mai noiosa. Secondo un proverbio propagato a Isaiah Berlin, il quale lo aveva preso in prestito da Tolstoi (i russi a loro volta lo avevano tratto dal narratore di favole greco Archiloco), la volpe sa tante piccole cose, ma il riccio ne sa una grande. Skrjabin era senza dubbio un riccio. Mentre la musica del suo connazionale più giovane come Stravinski (nonostante l’essenza inconfondibile e indistruttibile di “stravinskismo” che la attraversa come un filamento di acciaio dall’inizio alla fine) traccia un cammino proteiforme adattandosi da uno stile all’altro, quella di Skrjabin rappresenta una ricerca risoluta della cristallizzazione di uno stile unico. Al di là del loro debito comune a Debussy, il padre di numerosi elementi di modernismo musicale, i due compositori avevano in comune un certo “francesismo” che non era soltanto “musicale” ma più generalmente “culturale”. Ciò che i due compositori decisamente non avevano in comune era il dono del distacco che aveva Stravinski – l’ironia che gli consentiva di mantenere un senso di proporzione e che nella sua maturità lo salvò da quello che sarebbe stato un eccessivo entusiasmo -. La musica di Skrjabin, come la sua vita, era il riassunto dell’entusiasmo e dell’eccesso.
Comporre una prima sinfonia poco ambiziosa non sarebbe stato consono al carattere di Skrjabin. Non soddisfatto di una semplice lotta con le normali sfide formali, egli concepì l’opera (completata nel 1900) con un’ampia struttura a sei movimenti, aggiungendovi un coro e due solisti vocali nell’ultimo movimento, un adattamento di un testo dello stesso Skrjabin nel quale viene esaltata l’arte. L’opera che ne risulta è basata sullo stesso materiale del quale è costruita tutta la sua musica; gli umori che vi scorrono sono gli stessi, le percezioni alle quali tende sono le stesse. Alla prima esecuzione, diretta a Mosca il 29 marzo 1901 dall’insegnante di Skrjabin, Vassili Safonov, la sinfonia fece poca impressione. Ma questo risultato che amareggiò profondamente il compositore fu dovuto probabilmente più alla novità dello stile e alla sua portata che a un grave difetto inerente. Quindici anni dopo il critico londinese A. Eaglefield Hull scrisse della prima sinfonia: “È un capolavoro di grande bellezza. Per me è un enigma perché quest’opera non sia stata ancora ascoltata in Inghilterra”.

L’aggiunta del coro all’organico di esecuzione ha numerosi precedenti rispettabili e famosi. Dopo Beethoven, anche Mendelssohn e Liszt avevano scritto sinfonie con finale corale, e Berlioz e Mahler erano andati ancora oltre introducendo le voci in vari movimenti sinfonici. Benché la prima sinfonia di Skrjabin sia decisamente un’opera innovativa, allo stesso tempo essa rimane strutturalmente collegata alla tradizione sinfonica. Le forme sono infatti basate su ben noti principi della sonata. La portata della musica e i suoi metodi di sviluppo sono assolutamente sinfonici, come lo è anche l’accorgimento di consolidare l’unità formale attraverso una durata di quasi 50 minuti tramite il ritorno, nel finale, ad alcuni elementi tematici del Lento iniziale.
E, se ragionevolmente, consideriamo questo Lento come un’ampia introduzione, l’opera assume la forma di una tradizionale sinfonia in quattro movimenti con l’aggiunta di un’apoteosi corale.
Un aspetto stilistico particolarmente interessante è la coerenza dello schema ritmico della sinfonia. Con l’eccezione di quattro battute isolate, sparse attraverso il primo movimento, fino a circa metà del finale l’intera opera è scritta in metro ternario (oppure, nel caso del secondo Lento, un metro composto di due metri ternari). Ciò ha un triplice effetto: innanzitutto contribuisce a rinforzare l’effetto di unità della sinfonia; inoltre aumenta il senso di fluidità sinuosa che già in questa prima sinfonia di Skrjabin viene causato dall’estensione della tonalità; e infine rende ancora più singolare l’effetto del tempo comune del coro conclusivo, dove finalmente viene rotto lo schema prevalente del metro ternario.
Nelle ultime tre sinfonie Skrjabin si allontana progressivamente ed inesorabilmente dai concetti classici, concentrandosi sempre di più sul suo individualistico misticismo religioso.
La seconda sinfonia, composta nel 1901 ed eseguita per la prima volta a Pietroburgo sotto la direzione di Anatol Lyadov il 12 gennaio 1902, rimane più o meno libera dalle innovazioni estetiche più tarde. Le indicazioni emotive che abbondano nella partitura della n. 3 – indicazioni come “sempre più audace”, “trionfante”, “con premura ed ebbrezza”, “con lassitudine e languore” – non appaiono affatto nella sinfonia n. 2, nella quale Skrjabin non si avventura mai oltre le istruzioni relativamente familiari come “serioso” e un occasionale “dolce”. Non vi sono particolari implicazioni programmatiche. Inoltre, fra le sue cinque sinfonie, dal punto di vista strutturale la Seconda è quella che più si avvicina allo schema classico a quattro movimenti, al quale in effetti si attiene fedelmente se – anche in questo caso – non consideriamo l’Andante iniziale come un movimento indipendente ma come un’introduzione per l’Allegro in mi bemolle maggiore che vi segue senza interruzione.
L’ampio schema della forma-sonata viene chiaramente mantenuto nell’Allegro.

La fine dell’esposizione è enfaticamente contrassegnata da una codetta nella dominante, si bemolle maggiore, che ritorna in maniera assai tradizionale in mi bemolle per concludere la ricapitolazione. Ma anche se Skrjabin, il quale aveva lasciato il Conservatorio di Mosca da meno di dieci anni, in questo rispetto dimostra di essere un “bravo ragazzo”, nella musica non mancano l’individualità e la maestria.
Si noti la maniera in cui gli enfatici accenti contrari che diversificano il ritmo del tema principale vengono lasciati fuori dal discorso dopo qualche affermazione iniziale, per ritornare con maggiore forza di convinzione alla fine dello sviluppo e nuovamente nella coda.
Inoltre, il primissimo tema della sinfonia, che appare nel clarinetto nella seconda battuta del movimento introduttivo, viene abilmente impiegato come elemento unificatore attraverso l’opera: esso non soltanto fornisce (trasformato in un assertivo do maggiore) la base per il finale Maestoso, ma la sua influenza melodica e ritmica viene percepita in maniera più sottile in vari punti intermedi. La Seconda sinfonia rivela anche una maggiore sicurezza nello stile espressivo e dell’inventiva strumentale. Le sonorità nell’Andante iniziale vengono delicatamente intensificate con qualche tocco ben scelto per violino solista. La sezione degli ottoni viene impiegata con originalità e maestria sia nelle sezioni veloci che in quelle lente, e il principale movimento lento, Andante, dopo un efficace accostamento delle sonorità dei flauto e dell’ottavino nelle battute introduttive, presenta alcuni richiami evocativi di uccelli nel flauto. Chiaramente la musica di Skrjabin preannuncia non soltanto le estasi religiose di Messiaen, ma anche la preoccupazione di quest’ultimo con il canto degli uccelli.
La Terza sinfonia, le divin Poème, fu scritta all’inizio del soggiorno di Skrjabin in Occidente, periodo che durò quattro anni dal 1904 al 1908. Arthur Nikisch ne diresse la première a Parigi il 29 maggio 1905. Come il più noto Poème de l’extase, Le divin Poème è ispirato da un’idea extramusicale. La seguente nota, a quanto pare dettata da Skrjabin alla sua giovane amante Tatiana Schloezer, fu distribuita alla esecuzione: le divin Poème (il poema divino) rappresenta l’evoluzione dello spirito umano il quale, liberato dalle leggende e dai misteri del passato che ha superato e distrutto, passa attraverso il panteismo per giungere a un’affermazione gioiosa ed esilarante della propria libertà e della sua unità con l’universo. Luttes (Lotte); il conflitto tra l’uomo come schiavo di un dio personale e l’uomo come dio in se stesso. Quest’ultimo trionfa, ma scopre che la sua volontà è troppo debole per proclamare la propria divinità e quindi cade nel panteismo.
Voluptés (Voluttà): l’uomo si lascia conquistare dai piaceri del mondo dei sensi. Egli è inebriato e lusingato dai piaceri voluttuosi nei quali si è spinto. La sua

personalità si perde nella natura. L’intuizione della sublimità emerge dalla profondità del suo essere e lo aiuta a vincere la passività del proprio io.
Alexander Skrjabin

Jeu divin (Gioco divino): lo spirito, liberato dalla sottomissione a un potere superiore e cosciente della sua unità con l’universo si abbandona alla gioia suprema di un’esistenza libera. Sarebbe ancora possibile riconoscere il profilo di forme sinfoniche tradizionali dietro l’opulenza dell’espressione inebriante di Skrjabin. Ma con un compositore talmente impulsivo e rapsodico il tentativo sarebbe fuorviato – l’ascoltatore che ascolta l’opera per la prima volta farebbe meglio a lasciarsi trasportare dal flusso dell’invenzione – musicale e dagli splendidi colori orchestrali. Attraverso numerosi cambiamenti di moda nell’estetica, Le Poème de l’extase di Skrjabin ha sempre continuato ad affascinare gli ascoltatori, e può essere che le ragioni per il suo fascino siano da cercare tanto negli ornamenti “esterni” quanto nella qualità della musica stessa. Ciò che Skrjabin vuole esprimere in questa composizione, secondo A. Eaglefield Hull, è “l’estasi dell’azione senza barriere, la gioia dell’attività creativa”. Composto fra il 1905 e il 1908, Le Poème de l’extase non presenta alcun “programma” specifico nella sua partitura completa. Ma le istruzioni per l’esecuzione vanno ben oltre alla tradizionale terminologia musicale, frasi come “con nobile e dolce maestosità”, “con ebbrezza sempre crescente” e “quasi in delirio” appaiono con la medesima frequenza delle indicazioni più note come “Allegro” o “Lento”.
Secondo Modest Altschuler il quale aiutò Skrjabin nella revisione della partitura quando visitò il compositore in Svizzera nel 1907, il programma implicito si svolge come segue:
1. La sua anima nell’orgia dell’amore;
2. La realizzazione di un sogno fantastico;
3. La gloria della sua arte.
Diversamente dalle prime sinfonie di Skrjabin, la Quarta si stacca dalla tradizionale divisione sinfonica in movimenti separati. Essa è disposta in un unico movimento continuo, e benché vi rimangono alcune tracce dello schema tonale della forma-sonata che Skrjabin aveva mantenuto precedentemente, ora queste appaiono molto meno rilevanti per la struttura. La forma dipende piuttosto dalla continua compenetrazione e reciproca fecondazione di una molteplicità di piccolissime unità tematiche, la maggior parte delle quali è di un cromatismo talmente tortuoso da sconvolgere quasi interamente la sensazione di tonalità sotto il vertiginoso assalto dei mutevoli colori armonici.
L’ultima composizione orchestrale di Skrjabin, Prometeo: il poema del fuoco, completata a Bruxelles nel 1910, è in un certo senso un concerto per pianoforte. Allo stesso tempo essa rappresenta il culmine sia della sua opera simbolica sia delle sue esplorazioni metafisiche. La folle esuberanza della fusione scriabiniana fra arte e religione – il suo impulso di unire l’elemento reale a
quello soprannaturale (come ha formulato Alfred Swan) tramite “una forma di magico incantesimo” – trova la sua realizzazione nel Prométhée più che in ogni altra opera. In aggiunta alla consueta gamma di sonorità orchestrali, compresa la sezione ampliata degli ottoni assai consueta per Skrjabin, la partitura prevede una tastiera opzionale per la realizzazione di una varietà di luci colorate; inoltre nel massiccio culmine finale viene aggiunto agli strumenti un coro a quattro voci che esegue la vocalizzazione con determinate vocali e un’occasionale consonante aspirata.
Nei suoi primi tre tentativi in questo genere, Skrjabin aveva mantenuto intatto il concetto classico della sinfonia come forma articolata in vari movimenti e basata sui principi della sonata. Prométhée, come il suo predecessore Le Poème de l’extase, è basato sul modello a un movimento unico. Probabilmente questa conclusione fu inevitabile per un compositore il cui linguaggio armonico, qui portato al suo apogeo profondamente individuale tramite l’elaborazione sistematica di un accordo di quarte sovrapposte, tendeva a sciogliere i tradizionali elementi tonali e di conseguenza annullava le strutture che dipendevano da tali elementi. Forse ugualmente inevitabile alla fine è l’associazione nel suo supremo brano orchestrale con il mito di Prometeo. Skrjabin si riteneva un essere ispirato che era stato predestinato a recare l’illuminismo all’umanità. L’eroe che portò il fuoco agli uomini gli offriva quindi un naturale punto di identificazione e ispirò una musica – probabilmente la migliore mai composta da Skrjabin – che è in grado di entusiasmare un pubblico anche senza le luci colorate.
Registrazioni in DDD eseguite dal 1991 al 2001. Audio eccezionale. Altamente raccomandato.

(Traduzione: Bernard Jacobson)

Sinfonia n. 1 in mi maggiore per grande orchestra, op 26

È noto che nell’adesione delle emergenti correnti intellettuali russe, sul finire dell’Ottocento, alla poetica simbolista, tanto il presagio di un’incombente palingenesi di ogni valore artistico e sociale – l’impero zarista maturava già da tempo i germi della sua rovinosa crisi – quanto l’angoscia, autenticamente esistenziale, per il futuro, si applicarono con efficacia dirompente nel ricusare sia le soluzioni positiviste sia le lusinghe naturaliste, facendo pendere la bilancia a favore di concezioni messianiche e religiose del tutto peculiari, ma inscindibilmente legate all’anima russa. Non fu soltanto un motto o un indirizzo, l’asserzione «verrà il messia e sarà russo», quanto il punto d’arrivo d’un itinerario che giungeva dai primordi del paese come nazione, rinvigorito e proiettato sulla ribalta internazionale dalle affermazioni della Russia in ogni

campo dello scibile, al coronamento dell’Ottocento. A somiglianza di quanto sì era verificato in Francia, nell’apogeo del secolo dei lumi e nel massimo rigoglio degli Enciclopedisti, così in Russia verso la fine del secolo diciannovesimo l’aspirazione al nuovo fu sollecitata dall’apparire di riviste letterarie come «Il messaggero del nord», «Il mondo dell’arte», «La nuova via» o i vari «Almanacchi», cui collaborarono personalità come Mereskovski, Stanislavski e Diaghilev. Accanto al dibattito sui problemi filosofici, religiosi e artistici, si sviluppò un fecondo movimento di rilettura critica del teatro, non solo classico ma anche di Cechov. I centri d’interesse culturale, che trassero sviluppo dall’affermazione di quei periodici letterari ed artistici, suscitarono un’accesa rivalità tra le due capitali, Mosca e Pietroburgo: se a Mosca il movimento simbolista ebbe una sottolineatura decadentista ed annoverò, tra le sue fila, personalità come Valeri Briusov, Viaceslav Ivanov, Alexander Blok, nei quali l’estetismo si accompagnava strettamente al misticismo, a Pietroburgo si instaurò un vero e proprio «mito» della città, specie nella generazione successiva, quella di Balmont e di Andrei Belyj. Per entrambe le correnti, la prima matrice era d’ascendenza occidentale, cioè da Baudelaire, Verlaine e Mallarmé, conosciuti in Russia specie per merito di Briusov, che tradusse anche vari lavori di Verhaeren, D’Annunzio, Maeterlinck e Oscar Wilde, pur se va riconosciuto in Vladimir Soloviev un autentico precursore del vero e proprio simbolismo «russo», assai più legato, degli autori precedenti, al pensiero religioso e alla problematica di Dostoievski sul tema che sarebbe stata «la bellezza a salvare il mondo», bellezza in senso squisitamente mistico. Un altro personaggio russo fondamentale, in tale contesto, fu Annenski, ritenuto l’anello di congiunzione tra decadenti e simbolisti veri e propri, per la teoria che assegnava all’artista il compito di «liberare e trasfigurare la realtà in un mondo di simboli che rivelassero l’inesauribile ricchezza dell’animo più recondito»; altri miti dei simbolisti russi, da Ivanov a Blok a Belyj, furono quelli dei «mondo delle maschere», dell’«eterno femminino», della «Russia dei sogni come entità lirica», in stretta simbiosi di poesia, teatro e musica. Un altro mito sintomatico del simbolismo russo fu quello del «Cristo che marcia, invisibile ed invulnerabile, alla testa della ronda di notte, nel vento e nella neve». A tutti i protagonisti di quella feconda stagione artistica russa fu comune un fondamentale eclettismo, che si manifestava nella vastità degli orizzonti intellettuali e si estrinsecava in un fraseggiare poetico dagli smaglianti colori, dalla vibrante musica e dalla straordinaria dovizia di metri, di ritmi e di titoli, immaginifici se non funambolici.
È dalle speculazioni teoriche e filosofiche di Soloviev e di Ivanov che trae le sue dirette radici la poetica di Scriabin, ferma restando l’imprescindibile forza del suo genio musicale. Come ha scritto infatti Boris de Schloezer, «Scriabin non ha trasferito in musica soltanto delle idee filosofiche… ma spetta alla sua

musica il compito di esaltare quelle idee», da intendersi cioè nel senso che qualsiasi rituale simbolista ed esoterico è stato risolto sul piano della creazione musicale, intesa come arte pura. Nonostante la varietà delle immagini e dei mezzi espressivi, in ogni composizione di Scriabin è rinvenibile però una peculiare sistematica, la cui simbologia investe ogni parametro del suo operare musicale, dal linguaggio al ritmo, all’armonia, alla forma. Ancora da Soloviev Scriabin trasse le seducenti suggestioni dell’idealismo visionario e del mito dell’eros, facendole assurgere ad entità sovrumane, trasferite in simboli, con la convergenza anche di «proiezioni» dall’individuale mondo interiore, dall’inconscio più irrazionale. E Scriabin, alla pari di Ivanov, Belyj e Blok, attribuì all’arte una funzione conoscitiva di carattere quasi medianico, non rifuggendo altresì da speculare nell’ambito teosofico e dell’occultismo, secondo la mediazione svolta da Blavatsky e Swedenborg nella «intellighentsia» culturale dell’epoca: l’arte, ed in primis la musica, come mezzo primario di approccio al «divino», attinto infine con l’«estasi», dopo aver infranto ogni legame con la realtà fenomenica. Nel campo specifico della creatività musicale, Scriabin procedette per varie fasi d’evoluzione stilistica, di forma e di contenuto, partendo però sempre dalla conservazione di certe strutture fornite dalla tradizione, quali i moduli delle Sonate, dei Preludi, delle Danze, che venivano però svuotate all’interno e arricchite di un materiale linguistico nuovo, tendenzialmente frammentario e rapsodico – donde la propensione sempre più marcata per il «poema» – sia nell’aspetto melodico, sia nella componente armonica o ritmica. In maniera non dissimile dall’esperienza perseguita nel genere sinfonico da un Mahler, Scriabin non ricusa mai l’adozione di schemi superati, come appunto le Sinfonie, le Sonate, i Preludi, i Valzer, nell’anelito all’esplorazione di nuovi mondi lessicali ed armonici, sottraendosi però al condizionamento della tradizione formale: d’intesa perfetta con l’estetica dei simbolisti, per Scriabin quelle strutture formali «morte» fungevano da raccordo con il passato, di cui esemplificavano la spoglia esterna della vita «nuova», stimolata interiormente dallo spirito e materiata nei riferimenti simbolici.
Prendeva intanto a definirsi la cosmogonia artistica di Scriabin nell’incontro- scontro dei tre simboli fondamentali, cioè del «caos» inconscio ed istintivo, dell’«eros» volitivo, dell’«estasi» come apoteosi dell’individuo e del suono, dissolti nell’armonia universale. E tutto si realizza nei due ambiti creativi suoi propri, il genere sinfonico e la produzione pianistica. Pasternak ebbe a scrivere nell’«Autobiografia»: «nella stagione prossima alla morte, Scriabin, che ragionando sul superuomo riverberava l’antichissima tendenza russa verso lo straordinario, ha voluto impegnarsi nella ricerca di nuovi mezzi espressivi, come Belyj e altri, perdersi nel sogno di un nuovo linguaggio e frugarne, palparne le sillabe. Scriabin, servendosi degli stessi mezzi dei suoi predecessori, ha rinnovato radicalmente la nostra sensibilità musicale… Un’occasione d’arte è

stato Scriabin: come Dostoievski non è soltanto romanziere, come Blok non è soltanto poeta, Scriabin non è soltanto compositore ma eterna occasione di gaudio, celebrazione e sagra personificata della cultura russa». E Faubion Bowers, il suo minuzioso biografo, ha osservato: «Scriabin è diventato ora, nella seconda metà del Ventesimo secolo, finalmente ‘attuale’ e non è più una solitaria voce nel deserto come al suo tempo. Una nuova generazione si è riconosciuta nel mondo visionario del musicista, non solo nei suoi lavori».
Nella prima produzione sinfonica tutto questo è immanente, ma non soltanto allo stato larvale. Se la «Seconda Sinfonia» (1901) sembra addirittura non avere un preciso assunto programmatico, la presenza di un intervento corale conclusivo conferisce invece alla «Prima Sinfonia» un chiaro supporto per un’interpretazione extra-musicale. Il testo, scritto in russo dallo stesso Scriabin, parla delle capacità catartiche dell’arte, di visioni immaginifiche, di fratellanza universale. Più che alla «Nona Sinfonia» di Beethoven si è indotti a pensare al sinfonismo di Franz Liszt. Comunque la «Sinfonia n. 1 in mi maggiore» è di grandiose proporzioni, espandendosi per tre quarti d’ora di musica, in sei movimenti, con due solisti vocali e un grande coro ed appare caratterizzata da una impervia complessità di scrittura, con motivi ricorrenti, dense macchie armoniche, ardui nodi ritmici – «dopo Scriabin, Wagner sembra uno che biascica come un lattante» scrisse Anatol Liadov su questa sinfonia.
Composta di getto a Mosca, tra l’estate del 1899 e l’aprile del 1900, subito dopo aver scritto la monumentale «Terza Sonata», la «Prima Sinfonia» conobbe la prima esecuzione assoluta l’11 novembre 1900 a Pietroburgo con la direzione di Anatol Liadov: mancava però l’ultimo movimento con le parti vocali. La prima esecuzione integrale trovò luogo invece a Mosca il 29 marzo 1901, sotto la direzione di Vassili Safonov.
La struttura e lo stile della «Prima Sinfonia» non sono immuni da riferimenti all’estrema produzione della Scuola Nazionale russa dell’Ottocento, alle prime sinfonie di Mahler e alle ultime composizioni di Bruckner. Proprio il musicista austriaco sembra esser evocato dall’attacco della sinfonia, un «Lento» in mi maggiore con le sintomatiche note tenute dei corni, i pizzicati dei bassi, il tremolante disegno di violini e viole che preannunciano l’enunciazione del primo tema, assegnato al clarinetto: un tema d’impostazione moderna, con il frequente intervallo di settima maggiore, ripreso poi liberamente da altri strumenti, dagli archi ai flauti, finché si trascorre a un secondo nucleo motivico, di nuovo indicato in partitura come «dolce», affidato al flauto con l’accompagnamento dei legni e nell’osservanza dello schema strutturale più tradizionale. Si torna poi al primo soggetto perché il «Lento» segue lo schema ABA’B’. È assai interessante notare in proposito che un motivo secondario contrapposto a quello principale nella sezione B – e nella variante inclusa in B’ – viene letteralmente a tornare all’inizio del movimento conclusivo.

Riccardo Muti

Il successivo «Allegro drammatico» funge praticamente da primo movimento, dal momento che il «Lento» precedente può essere assimilato all’Introduzione, secondo gli stilemi del classicismo viennese. Pervaso da robuste tensioni dinamiche, l’«Allegro drammatico» adotta la tipica forma-sonata, con i convenzionali esposizione, sviluppo, ripresa, coda, e coinvolge, nel trattamento del materiale tematico, i violini a terzine con ritmi asciutti, i secondi violini pure a terzine e in densi cromatismi, il clarinetto in un fraseggio di dolce cantabilità. Una breve ricapitolazione funge da ponte tra l’esposizione e l’ampio sviluppo in cui si ascoltano i più stupefacenti effetti e combinazioni strumentali. Al culmine della tensione espressiva avviene il ritorno all’esposizione con una ripresa quasi testuale, mentre nella Coda il primo tema domina in maniera incontrastata e porta a conclusione il movimento in fortissimo. Il «Lento» successivo è un movimento d’assoluta linearità, in forma ternaria ABA con varie articolazioni all’interno di ogni sezione, proponendo i pannelli estremi tre varianti della melodia iniziale del clarinetto, mentre il nucleo centrale, un poco più mosso, altera il breve inciso nell’impiego all’unisono di tutti i legni. Il quarto movimento è un «Vivace» che presenta tutte le caratteristiche dello Scherzo, un tempo vigoroso, folgorante, serrato, quasi scritto in punta di penna. Assai interessante la leggerezza di scrittura dei fiati nonché la ritmica semplice ed incisiva. Nel Trio si ascoltano l’ottavino e il Glockenspiel. Il quinto tempo «Allegro» ripresenta una maestosa e solenne struttura tardo-romantica, secondo

la forma-sonata. Sul preclaro esempio del sinfonismo mitteleuropeo di fine Ottocento, il materiale motivico appare chiaramente assunto dai movimenti precedenti ed assegna una omogeneità estrema all’edificio sonoro. Il motivo iniziale, esposto dai violini, altro non è che una variante del soggetto introduttivo del primo movimento e svolge una funzione di coordinamento degli altri soggetti tematici, a loro volta legati da correlazioni ritmico- armoniche ai temi precedenti. Assai suggestiva è la conclusione, in tempo Presto. L’ultimo movimento, «Andante», nella tonalità principale di mi maggiore, oltre ad essere connesso, su tutti i parametri, ai tempi precedenti, adotta una singolare struttura liederistica in cui gli interventi vocali vengono intercalati da brevi interludi strumentali che interessano ora sezioni staccate, ora tutto l’organico orchestrale. E, a conclusione del movimento, e dell’intera «Prima Sinfonia», si ascolta un effuso panegirico, dedicato da Scriabin alla musica e all’arte in generale: le prime strofe sono assegnate ai due solisti, un mezzosoprano e un tenore, le ultime al coro, in una perorazione d’impressionante icasticità.

Testo

MEZZOSOPRANO
Sublime dono degli Dei,
dell’armonia legge divina,
dei nostri cor sovrana sei,
del nostro spirito regina!

TENORE
Divina eterna melodia,
tu grazia sei, tu sei passione;
a te sia lode, gloria sia,
o grande splendida visione.

MEZZOSOPRANO E TENORE
Nell’ora cupa del dolor
se triste, oppressa l’alma giace,
ridar tu sai conforto al cor,
a lui recar speranza e pace.

MEZZOSOPRANO
Le forze spente del guerrier
la fiamma tua ridesta, accende
e lo sorregge il tuo poter
a lui coraggio e vita rende.

TENORE
Tu pura gioia e voluttà
ai tuoi seguaci fidi sveli,
e notte e dì risuonerà,
trionfa il coro dei fedeli.

MEZZOSOPRANO E TENORE
Onnipossente spirerà
il soffio tuo la terra inonda
tu doni all’uomo libertà
e l’opra sua sarà feconda.
Il mondo tutto levi un canto,
un inno all’arte echeggerà!

CORO
All’arte gloria, onore e vanto; sia gloria all’arte, onore e vanto.

Sinfonia n. 2 in do minore op. 29

Eseguita per la prima volta due anni dopo la Prima, la Seconda Sinfonia contiene alcuni elementi degli stili di Strauss, Ciaikovsky e Wagner, che si fondono alla perfezione con il personalissimo universo sonoro di Scriabin. Per quanto presenti uno stile meno magniloquente di quello delle altre sinfonie, la Seconda rivela nei suoi cinque movimenti diversi fortissimo di tellurica energia, una ricchissima tavolozza di colori e parecchi passaggi intrisi di una maestosa intensità, con un Andante cantabile che sfocia senza soluzione di continuità nella gaia brillantezza del secondo movimento.

Sinfonia n. 3 in do minore “Le divin Poème” op. 43

Il musicologo russo Boris de Schloezer, genero di Skrjabin e autore di una delle più importanti biografie del compositore moscovita, ha diviso la vita del musicista e la sua opera in tre periodi: il primo va dal 1886 al 1903, il secondo dal 1904 al 1908, il terzo dal 1909 al 1915. La Sinfonia n. 3 in do minore op. 43, composta tra il 1902 e il 1904, si situa a cavallo tra il primo e il secondo periodo e segna una svolta importante tra una serie di composizioni che possono essere definite di formazione e le prime opere in cui Skrjabin raggiunge una maturità compositiva in cui si delinea con chiarezza il suo personalissimo stile.

Nato a Mosca il 25 dicembre 1871, secondo il calendario giuliano in uso in Russia prima della rivoluzione sovietica, o il 6 gennaio 1872, secondo quello gregoriano, il giovane Aleksandr Nilolaevic fu avviato alla carriera militare dal padre anche in virtù del fatto che la madre, Lubov Petrovna Stochtinina, era morta un anno dopo la sua nascita. La scuola moscovita dei cadetti non impedì comunque a Skrjabin di rendersi conto del suo talento musicale e coltivarlo, sino a quando, nel 1888, abbandonò la caserma per entrare al Conservatorio dove si svolse la sua preparazione accademica tramite il pianista Vasilij Il’ic Safanov e i compositori Sergej Ivanovic Taneev e Nikolaj Arenskij. I primi esordi sono brani pianistici in cui si riscontra un’indiscutibile influenza chopiniana, come i numerosi valzer, le mazurke, gli improvvisi, i ventiquattro Preludi op. 11 e il Concerto in fa diesis minore op. 20 per pianoforte e orchestra del 1896. Il giovane Skrjabin scrive musica attingendo ai grandi esempi della musica occidentale e russa, ed è per questo motivo che si rivolge a Nikolaj Rimskij-Korsakov per avere una guida alla composizione orchestrale; peccato però che il tentativo di divenire suo allievo fallì e pose Skrjabin dinanzi alla scelta di percorrere come autodidatta la via del sinfonismo. Nasce quindi la Sinfonia n. 1 in mi maggiore op. 26 per soli, coro e orchestra, composta con grande slancio nel 1899, un primo tentativo sinfonico in cui Skrjabin non sembra riuscire a dominare con sicurezza la massa orchestrale e le strutture compositive, anche a causa della suddivisione in sei movimenti e della congerie strumentale e vocale che mette in campo.
La Sinfonia n. 2 in do minore op. 29 segue la prima di due anni. Composta nel 1901, è puramente strumentale, ma anch’essa risulta estremamente complicata nella struttura d cinque movimenti che la compongono, in quanto Skrjabin intendeva stabilire un rapporto logico-discorsivo alternando tempi lenti con tempi veloci e facendo ritornare alcuni temi in maniera incrociata all’interno dei movimenti. Skrjabin apprezzò molto i riconoscimenti di stima che gli vennero per questa sua nuova sinfonia, anche se in seguito si mostrerà critico nei confronti della sua opera, ancora molto debitrice nei confronti di stilemi del tardo romanticismo che limitavano una libera e originale espressività.
Il sinfonismo skrjabiniano si sta dunque evolvendo, ma il passo decisivo che portò il compositore russo verso l’acquisizione di un suo stile personale fu la creazione della Sinfonia n. 3 definita “Poème Divin”; cerchiamo di vederne le ragioni. Innanzi tutto abbiamo un cambiamento di punti di riferimento, di modelli compositivi per l’ormai trentenne Skrjabin; lasciato Chopin e le suggestioni intimistico-pianistiche, ecco divenire chiare dalla Sonata op. 30 per pianoforte le figure di Richard Wagner e Franz Liszt. Essa si manifesta sia nella tavolozza timbrica dell’orchestra che non segue, per esempio, le suggestioni rimskijane e sia nell’armonia con un uso diffuso del cromatismo che,

unitamente ad una valorizzazione del “tritono”, gli permette qui di elaborare per tutta la durata dell’opera il tema principale con cui si apre la Sinfonia. È il primo passo verso quella dissoluzione degli schemi armonici classici che porterà in seguito Skrjabin a proporre le sue personali soluzioni armoniche basate sull’uso della scala per toni interi e l’uso di accordi di 9a, di 11a e di 13a alterata costruiti sulla sovrapposizione di intervalli di quarta, sino a giungere al famoso accordo “sintetico” (do-fa#-sib-mi-la-re) che caratterizza Prométhée, le poème du feu op. 60 del 1911. Ma l’evoluzione di Skrjabin non è solo questione di punti di riferimento musicali e nasce anche da una maturazione fìlosofica e artistica in generale raggiunta dal compositore, nonché da un radicale mutamento della sua situazione affettiva. Partiamo da quest’ultima.
Skrjabin aveva sposato nel 1897 la pianista Vera Ivanovna Isakovic dalla quale avrà quattro figli, Rimma nel 1989, Hélène nel 1900, Marie nel 1901 e Lev nel 1902, ma, a dispetto della apparente tranquillità e nonostante la dedizione della moglie, la sua vita familiare non era felice. Vera Ivanovna pare non riuscisse a comprendere il suo animo inquieto e l’ancora confusa ispirazione creatrice che spingeva Skrjabin a cercare in un indistinto misticismo filosofico la strada da percorrere. Ecco quindi che quando nel 1903 il musicista conobbe la giovane Tatiana de Schloezer, ventenne sorella del musicologo Boris, amico di Skrjabin, non gli fu difficile riconoscere in lei il suo nuovo e definitivo amore. Tatiana infatti era un’ammìratrice della musica di Skrjabin e dopo aver conosciuto il maestro decise di dedicargli la sua vita divenendone la compagna e condividendo con lui i difficili momenti della creazione artistica. Il 1903 è dunque l’anno centrale della composizione del Poème Divin; Skrjabin lasciò la cattedra che ricopriva al Conservatorio di Mosca proprio per dedicarsi meglio alla sua opera, in un momento economico, che, tra l’altro, non lo vedeva assolutamente in buone acque Skrjabin pubblicava le sue composizioni presso la casa editrice Beljaev, sempre dopo aver ricevuto cospicui anticipi dal fondatore Mitrofan Petrovic, il quale gli aveva così assicurato una certa agiatezza; alla morte di Beljaev, avvenuta sempre nel 1903, la direzione della casa editrice era passata in mano ad un gruppo di musicisti tra cui Rimskij- Korsalcov, Liadov e Glazunov, non solo ostili a Skrjabin, ma anche attenti ai conti della società, e questo significò il taglio degli antìcipi e l’invito a mantenere i tempi di consegna del materiale. L’intervento economico di una alunna di Skrjabin, Margarita Morozova, che diverrà mecenate del compositori diede la possibilità al musicista di trasferirsi in Svizzera all’inizio del 1904, dove, nei pressi di Ginevra, proseguì con maggiore tranquillità alla stesura della sua Terza Sinfonia. La presenza di Tatiana era però ormai indispensabile al musicista, anche perché quest’ultima stava redigendo una sorta di programma interpretativo-descrittivo dell’opera skrjabiniana che definiva meglio all’ascoltatore gli intenti estetici della creazione musicale. Ecco pertanto che

Skrjabin affitta un appartamento nei pressi della sua villa, e dopo pochi mesi si fa raggiungere da Tatiana con la quale prosegue la sua relazione. La rottura con la moglie è repentina, e già alla fine dell’anno la separazione è decisa Vera Ivanovna esce quindi dalla vita di Skrjabin, e il suo posto viene preso da Tatiana de Schloezer, moglie e sacerdotessa del musicista.
La maturazione musicale che conduce al Poème Divin è anche frutto di interessi specifici nel campo filosofico che Skrjabin coltivò circa dal 1901 in poi e che gli permisero di elaborare una complessa teoria estetica all’interno della quale possono essere collocate le sue grandi creazioni sinfoniche a partire dalla Sinfonia, op. 43.
La formazione filosofica di Skrjabin fu quella di un autodidatta; iniziò dai classici greci tra cui spiccava Platone, per passare attraverso i tedeschi Kant, Fichte, Hegel, Schelling e Feuerbach, e giungere ai suoi contemporanei come Nietzsche e Sergej Trubeckoj. Ciò che egli cercava era comprendere se era possibile ritenere l’atto della creazione artistica umana non come un gesto puramente estetico, un atto transitorio nel cammino dell’umanità, ma come un momento fondante del percorso dell’uomo verso una sua futura trascendenza, verso una sua divinizzazione e ricongiungimento con delle entità superiori. Idealismo e volontarismo caratterizzano il pensiero filosofico di Skrjabin negli anni in cui scriveva il Poème Divin, e questa sua composizione rispecchia in larga misura quanto si andava agitando nel suo animo. Ce ne rendiamo conto proprio grazie al programma che Tatiana de Schloezer scrive in occasione della prima esecuzione della Sinfonia a Parigi il 29 maggio 1905. I tre movimenti, Lento – Allegro, Lento, Allegro, sono preceduti dai titoli Luttes, Voluptés, Jeu Divin, che secondo il progetto della de Schloezer dovevano indicare «l’evoluzione dello spirito umano che, liberato da un passato di leggende e di mistero che supera e abbatte, giunge, dopo essere passato attraverso il Panteismo, all’affermazione libera e gioiosa della sua libertà e della sua unione con l’Universo, l’Io divino».
È evidente in questa dichiarazione una matrice nietzschiana resa evidente dallo slancio volontaristico e di dominio in cui l’individuo si pone al di sopra dell’umano per trascendere se stesso. Il Poème Divin è quindi la descrizione di questo percorso in cui in Luttes descrive «la lotta tra l’uomo schiavo di un dio personale, maestro supremo del mondo, e l’uomo potente, libero: l’uomo-dio. Quest’ultimo trionfa, sembrerebbe, ma è solo l’intelligenza che si solleva all’affermazione di un Io divino, poiché la volontà individuale, ancora debole, è tentata di inabissarsi nel Panteismo». In Voluptés «l’uomo si lascia prendere dalle delizie del mondo sensuale. I piaceri lo lusingano, lo cullano, ed egli vi si immerge. La sua personalità si annienta nella natura. In quel momento dal fondo del suo essere s’innalza però il sentimento del sublime che l’aiuta a

vincere la passività dell’Io umano». Il percorso si conclude in Jeu Divin, dove «lo spirito liberato infine da tutte le sue catene che lo legano al passato di sottomissione ad una forza superiore, divenuto creatore dell’universo con il solo potere della sua volontà, conscio di essere un tutt’uno con questo universo, si dona alla gioia sublime della libera esistenza: il Jeu Divin».
Occorre comunque avere ben presente che questo testo di Tatiana de Schloezer è successivo alla creazione musicale, quindi non deve essere considerato come un “programma” per Skrjabin, cioè una suggestione extramusicale a cui egli si è ispirato, bensì un testo che egli ha fatto inserire nel programma di sala della prima parigina per tentare di spiegare la complessità della sua opera. Nelle parole di Tatiana c’è un che di roboante e al contempo indefinito, o per dirla diversamente, di confuso, ma che comunque rispecchia il momento creativo attraversato da Skrjabin che compiva i primi passi verso l’affermazione di una sua propria originale visione dell’arte e del mondo.
Skrjabin aveva infatti immaginato la creazione di un’opera d’arte totale, fondata sui principi della sinestesia e ritenuta non più creazione edonistica ma atto liturgico capace di purificare il genere umano e portarlo oltre la sua terrestre fisicità verso il ricongiungimento con le forze dell’universo. Quest’ultima e definitiva creazione veniva definita Mistero, e con il Poème Divin il compositore compie il primo passo di avvicinamento alla sua realizzazione. L’idea era in nuce sin dalla Sinfonia, n. 1, e qualcosa si era intravisto nel coro finale in cui Skrjabin incitava all’arte come potenza divina, ma la forma musicale non era in grado di interpretare e chiarire i criptici messaggi del testo; il linguaggio della Sinfonia n. 3 comincia invece a dar forma al pensiero dell’autore. La mistica dialettica che Skrjabin intesse intorno al tema principale nelle prime sedici battute dell’opera dà il senso dell’inquietudine del compositore, della sua tensione verso un’indefinibile trascendentalismo, del suo rifiuto della corporeità umana. Il continuo rifluire del discorso melodico e armonico intorno a pochi nuclei tematici sembra presagire poi quella tendenza all’estasi che apparirà in maniera chiara nell’op. 54 del 1905-1908, e cioè Le poème de l’exstase, come momento in cui l’uomo è in grado di superare la fisicità del suo essere per sollevare l’anima dal mondo e spingerla verso l’infinito.

Alexsander Skrjabin

Nel corso degli anni le teorie di Skrjabin si veleranno sempre più di connotazioni inusite e teosofiche, anche se i contatti con la teosofia non sono attestati che da alcuni accenni nell’epistolario, come quello del 1905, quando scrive che sta leggendo La chiave della Teosofia di Madame Blavatskij, testo fondamentale della dottrina teosofica; la vicinanza è comunque forte fra le teorie skrjabiniane e il pensiero teosofico, e bisogna ricordare che durante un soggiorno a Bruxelles tra il 1908 e il 1909 il compositore frequentò gli ambienti teosofici riportando consensi per le sue opere. I consensi che il Poème Divin riscosse in occasione delle sue prime esecuzioni, quella di Parigi sopra citata del 1905 che vide Arthur Nikisch sul podio e quella di New York del 1907 durante una tournée del compositore, non furono dei più felici. Il critico della “Guide Musical” la definì noiosa, snervante e senza alcunché da dire, Louis Laloy dalle pagine del “Mercure Musical” rimproverò a Skrjabin di essere un epigono di Wagner, mentre Amédée Boutarel, critico della rivista parigina “Le Ménestrel”, puntò l’indice su quella che definì una sproporzione tra le pretese filosofiche del programma e la debolezza musicale dell’opera, attribuendo tutto ciò alla figura “bizzarra” del compositore. Anche i critici americani non furono da meno di quelli francesi, scrivendo a chiare note come il Poème Divin fosse opera di un «nevrotico» (“Musical America”), e null’altro che «idee torturate da ogni specie di fastidiose armonie» (“New York Times”), il che completa il quadro dell’accoglienza che la musica di Skrjabin aveva tra i suoi contemporanei.
Tali critiche vanno comunque oggi giudicate con clemenza. Addentrarsi nella partitura del Poème Divin è infatti cosa tanto affascinante quanto ardua. Dietro il rifluire contìnuo e ipnotico dell’onda magmatica, in quella che è stata definita’” la sua “pseudodialettica”, dietro l’apparente semplicismo tema e del suo movimento melodico, si celano un’organizzazione del materiale musicale, una sinuosità armonica e una alchemica lucentezza timbrica dell’orchestra che sono il frutto dell’estenuante perfezionismo di Skrjabin il quale restituisce all’ascoltatore non le asperità della composizione ma gli slanci esaltanti dell’artista e del suo credo misterico.
È quindi da sottolineare come Skrjabin a dispetto di un’apparenza fluttuante della struttura del poema, abbia costruito il Poème Divin secondo una forma salda e legata il più possibile alle codificazioni classiche, evitando qualsiasi tipo di improvvisazione o spontaneismo. Questo si può notare, per esempio, nell’alternanza dei tempi lenti con quelli veloci (Lento-Allegro-Lento-Allegro), nel costruire il primo e il terzo movimento secondo i canoni della “forma sonata” usando come tema il doppio leitmotiv degli ottoni e nello strutturare il secondo movimento, il Lento centrale, come un lied secondo lo schema A B C D A’ B’ C’ con una coda finale, servendosi di una rimembranza dei motivi del primo movimento.

Le Poème de l’exstase op. 54

Sentire l’universo

Nei quaderni di appunti che Skrjabin tenne a partire dal 1905, il nodo teosofico dell’estasi, come stato spirituale nel quale si fonde anima ed universo, occupa un posto di assoluto primo piano. Dagli scritti si comprende come il problema fondamentale del compositore non fosse solo provare nell’intimo questo stato, ma anche renderlo a livello di scrittura fìlosofica, poetica e musicale. Non a caso la composizione del Poema dell’estasi, che prese gli anni dal 1905 al 1908,

fu preceduta da un breve poemetto che Skrjabin fece pubblicare a sue spese nel 1905 e distribuì solo agli amici e ai collaboratori più stretti. I versi del poema innalzano un inno alla forza invincibile dell’animo umano; vi si possono leggere frasi come «e tu sarai un’onda di gioia e di libertà dal molteplice generata. / O legioni di sentimenti / o pure sensazioni / io creerò / in complessa unità / la sensazione di beatitudine che tutte vi rapisce». Tutto è pervaso da una cocente visionarietà, da un’estatica esaltazione. L’autore però non volle mai che il componimento poetico e quello musicale si integrassero a vicenda. Lontano da qualunque volontà di dare vita a un’opera di “musica a programma”, ebbe spesso a sottolineare che un direttore d’orchestra desideroso di eseguire il Poema dell’estasi non avrebbe dovuto conoscere lo scritto (anche se poi chiese al direttore Modest Altschuler di pubblicarne una sintesi nel programma della prima americana a New York, il 10 dicembre 1908). La pubblicazione poetica è comunque solo uno stadio verso il componimento musicale. Come tale può servire per fare luce su un percorso che ha però un’evoluzione ulteriore, che troverà solo nel mondo ‘fusionale’ dei suoni la sua realizzazione ultima.

Estasi e desiderio

Tormentato dall’esigenza di esprimere un crogiolo di sensazioni sorretto da un potente impeto espressivo, Skrjabin affidò alla speculazione teosofica il suo bisogno di inesprimibile, la sua sete di conoscere ciò che trascende la mera quotidianità. Portando a maturazione ultima la convinzione romantica della musica come fonte di conoscenza dell’infinito, egli tende a trasfondere nella creazione sonora quella parte di sé che partecipa ancora alla sintesi primigenia di ogni cosa. Detto in termini filosofici, ciò che Skrjabin cerca è l’astrazione dell’identità assoluta (il motore primo da cui deriva la realtà e lo spirito) tramite una smisurata fiducia nell”io’ creativo, e facendo dell’arte l’atto continuamente replicante la ‘creazione’.
Skrjabin amava moltissimo parlare di questi argomenti; ce lo ricorda Georgij Plechanov, primo traduttore in Russia di Marx ed Engels, padre del marxismo russo, autore assai stimato da Lenin. Nel 1905 i due, in vacanza a Bogliasco sulla riviera ligure, si incontrarono divenendo presto amici. Plechanov, che stimava enormemente Skrjabin, sceglieva spesso di rimanere in silenzio, lasciando parlare liberamente il musicista; in un suo scritto lo avrebbe poi definito “un mistico incorreggibile”.
In ogni modo, per quanto il pensiero voli alto, la musica con cui Skrjabin costruisce il suo Poema dell’estasi ha evidenti punti di contatto con la tradizione. La macrostruttura del Poema è in fondo una gigante ‘forma sonata’ in cui si susseguono un’introduzione, l’esposizione dei temi, il loro sviluppo, la ripresa variata e la coda finale. La mastodontica orchestra mette a disposizione del compositore risorse coloristiche enormi, che insieme alla fervida immaginazione ritmica e melodica costituiscono il vero elemento di interesse dell’opera. Per Skrjabin l’estasi è ‘stasi’, immobilità: l’introduzione è caratterizzata da un motivo che ruota intorno a una singola nota, enunciato dal flauto e ripreso da altri strumenti a diverse altezze. Ma è anche trasporto appassionato e sorprendente: l’inquieta armonia, striata in ampi voli ascensionali, lanciata in percorsi senza consequenzialità apparente, sostiene un’invenzione lirica assolutamente eccentrica. Skrjabin sa dipingere con sapienza, tragicità e rapimento. Il caotico rincorrersi dei temi, la saturazione del tessuto sonoro tramite il cromatismo, simboleggiano una ricerca inquieta, così come i trilli vaporosi e la diafana tessitura dei soli archi alludono, prima della coda, a un piacere celestiale.
Il Poema dell’estasi intende guidare l’ascoltatore nei meandri di un viaggio sonoro assolutamente anomalo ed eccezionale, perturbante e grandioso. Il successo espressivo della composizione, più che nell’aver dipinto lo stato dell’estasi, sta nella potenza con cui ha saputo dare suono al desiderio travolgente di raggiungerla.

Prométhée, le poème du feu, op. 60

Compositore e pianista, Alexander Scriabin compì gli studi musicali al Conservatorio di Mósca con Taneiev, Arenski e Safonov. Impostosi prima come pianista che non come compositore, Scriabin, esattamente come qualche anno dopo Prokofief, fu costretto per qualche tempo a trascurare la sua fondamentale vocazione per la composizione. Poco conosciuto in Europa, dove negli stessi anni dominava la prospettiva musicale imposta da Richard Strauss, trovò finalmente nel 1908 in Kussevitzki l’ardente apostolo della sua musica. Proprio grazie a Kussevitzki (e precisamente alle «Editions Russes de Musiques» che il grande direttore amministrava), Scriabin fu messo nelle condizioni di scrivere quel Prometeo che generalmente è considerata la sua più significativa composizione.
La differenza fondamentale tra Alexander Scriabin e i compositori del gruppo dei «Cinque» e dei loro continuatori sta nel fatto che, mentre l’orientamento di questi ultimi era determinato dal desiderio di mantenersi fedeli alla prospettiva di un’arte nazionale ed antioccidentale, l’ambizione di Scriabin si fondava sopra uno spregiudicato eclettismo impegnato soprattutto a nuove ed originali ricerche linguistiche; e questa ambizione crebbe dal giorno in cui cominciò ad accarezzare l’idea di compiere qualcosa di eccezionale, unico, senza precedenti: una sintesi di tutte le arti, in cui la musica non fosse fine a se stessa ma solo uno dei molti mezzi per produrre uno stato di estasi.
Con Il poema divino op. 43 del 1905 e Il poema dell’estasi op. 54 del 1908, il Prometeo, scritto nel 1910 ed eseguito per la prima volta a Mosca nel 1911,

appartiene all’ultima produzione musicale di Scriabin, immaturamente, scomparso all’età di 43 anni. In esso le aspirazioni misticheggianti ed il complesso simbolismo che caratterizzano tutta la produzione sinfonica scriabiniana, sono unite ad un linguaggio armonico che si allontana dal sistema tonale. Il pianoforte ha nel Prometeo un rilevante ruolo concertante mentre l’organo interviene solo alla fine insieme al coro. La trama dell’opera può essere chiaramente espressa dalle indicazioni apposte sulla partitura dallo stesso compositore: «Lento. Brumeux – avec mystère – contemplatif – joyeux – étincelant – voluptueux, presque avec douleur – avec délice – avec un intense désire – impérieux – avec émotion et ravissement – voilé, mysterieux – limpide – sourd, menacant – avec défi, belliqueux, orageux – avec un splendid éclat – déchirant, comme un cri – subitamment très doux – avec une joie éteinte – avec émotion et ravissement, puis voile mysterieux – suave charme – étincelant – victorieux – sublime – de plus en plus lumineux et flamboyant – flot lumineux – aigu, fulgurant – extatique – avec un éclat éblouissant – ailé, – dansant – dans un vertige».

***

A proposito della problematica musicale di Scriabin e in particolare di quella messa in atto dal Poema del fuoco, le opinioni della critica internazionale, «scioccata» da un apparato la cui grandiosità superava persino quella dei romantici tedeschi, furono alquanto discordi. Se Ernest Newman comprese l’importanza fondamentale del lavoro, destinato ad acquistare un peso di non poco conto sugli sviluppi della musica europea novecentesca, altri, come il Gray, non seppero resistere alla tentazione di scrivere spiritosaggini tendenti a stroncare una musica tutt’altro che sottovalutabile, anche dal punto di vista storico.
I due giudizi così contrastanti e così nettamente esemplificativi del dibattito critico che all’inizio del ‘900 fu condotto intorno al nome di Scriabin, meritano di essere citati integralmente. Ernst Newman, dopo la prima esecuzione a Londra, scrisse: «Ci troviamo di fronte a una musica che, per quanto è possibile oggi, è quella che più si avvicina alla pura voce della Natura e delle anime stesse… Il vento che vi soffia dentro è veramente il vento del cosmo. Le grida di desiderio, di passione e di estasi sono una specie di sublimazione quintessenziale di tutto l’Amore, non solo dell’umanità, ma di tutta la natura, animata e inanimata ».

Philhadelphia Orchestra

Cecil Gray, a sua volta, credette opportuno, e proprio nel momento in cui la musica di Scriabin stava diffondendosi nell’intera Europa, di esprimere questa perentoria quanto acritica affermazione a proposito del Prometeo: «Che esso sia riuscito ad imporsi al pubblico e abbia continuato a far presa su di esso per tanto tempo è una delle aberrazioni più inspiegabili nella complessa e mutevole storia dell’arte (…..) Scriabin ci ha offerto una musica sintetica, un prodotto che sta alla musica come la saccarina allo zucchero o le perle coltivate alle perle vere. Essa riesce a soddisfare pienamente ogni forma di critica più meccanica e pedestre. Ha tutta l’apparenza dell’arte. In essa vi è tutto tranne il principio vitale». Amenità pseudo-critiche, queste del Gray, che crollano miseramente di fronte ad un’ultima citazione estratta da un saggio di un musicista che, fra l’altro, non è notoriamente un patito di Scriabin: Gianandrea Gavazzeni. Scrive dunque Gavazzeni: «La partitura del Prometeo va guardata, sminuzzata, fatta a pezzi: dall’esasperazione cromatica siamo proprio qui alle soglie di un mondo armonico nuovo, tale e quale come avviene negli impressionisti. Soltanto che Scriabin, la curva, l’ha percorsa, tutta: si potrebbe dire che conduce l’armonia da Chopin sin quasi a Schönberg! E non è dir poco. L’ultima raccolta dell’occidentalismo russo».