Strauss Richard
Composizioni varie
In questo pregevole cofanetto sono incluse le più importanti opere di Strauss. Sotto il carismatico e affascinante Herbert von Karajan, i Berliner Philharmoniker suonano con la loro solita bravura.La qualità dell’immagine e del suono è, ovviamente, moderata, nessun confronto con il presente. Una collezione per i fan di Karajan e Strauss. Lo storico Don Chisciotte è, per quanto ne so, l’unica registrazione disponibile su DVD. Compilation, che per il suo valore storico è da acquistare ad occhi chiusi! Imperdibile !!
DVD 1
Eine Alpensinfonie “Sinfonia delle Alpi” poema sinfonico, op. 64 (TRV 233)
Se i primi abbozzi di un grande affresco sinfonico (che avrebbe dovuto intitolarsi L’Anticristo, Una sinfonia delle Alpi) risalgono al 1902, non fu prima del 1911 che Strauss riprese concretamente a lavorare a quella che sarebbe rimasta la sua ultima composizione per orchestra di grandi proporzioni e ambizioni. Il 18 maggio 1911, appresa la morte di Mahler, Strauss annotava sul suo diario che il titolo di Anticristo stava a significare che la Sinfonia delle Alpi dipingeva «la purificazione morale dell’uomo grazie ai suoi soli forzi, la liberazione dal lavoro, il culto dell’eterna, splendida natura». Ridotta dai quattro tempi previsti in origine a un unico grande movimento sinfonico, la Alpensymphonie continuava a mantenere il titolo di Anticristo ancora il 5 agosto 1913, quando Strauss terminava di stenderne la composizione; l’8 febbraio 1915, dopo cento giorni di lavoro, fu terminata anche l’orchestrazione; il 25 ottobre di quell’anno, a Berlino (ma alla guida dell’Orchestra reale di Dresda, dedicataria dell’opera), Strauss dirigeva la prima assoluta della Sinfonia delle Alpi.
Il titolo ormai scartato di Anticristo è comunque utile a comprendere l’effettivo significato di questa mastodontica partitura, che, privata del suo riferimento a un naturalismo pagano e ottimistico, rischia di rimanere soprattutto documento di un’ abilità descrittiva quasi cinematografica e di uno sbalorditivo mestiere di strumentatore («Finalmente ho imparato a orchestrare!» disse Strauss alla fine delle prove). Certamente, le esaltazioni nietzschiane dello Zaratbustra risuonano nella gigantesca Sinfonia delle Alpi abbondantemente stemperate nell’autocompiacimento del compositore ormai espertissimo. Resta a quest’opera, al di là della descrizione più o meno puntuale di una scalata in montagna dall’alba al tramonto, fra paesaggi suggestivi e visioni soprannaturali, il fascino di una pittura d’ambiente e di un grandioso respiro espressivo. Le varie sezioni della partitura descrivono via via la notte, il sorgere del sole (tema del sole in la maggiore), l’ascesa (tema del viandante), l’entrata nel bosco (arpeggi degli archi), il cammino lungo il ruscello (archi e legni con abbondanza di figurazioni), la cascata (archi balzati, scale discendenti di legni, triangoli, campanelli), l’apparizione della natura (melodia dell’oboe, tema del corno), le praterie fiorite (con cinguettio d’uccelli e svolazzare di farfalle), i pascoli alpestri (jodler dei legni, campanacci), i sentieri impervi attraverso il folto e le fratte (fugato), il ghiacciaio (violini e viole acutissimi, trombe e clarinetto in mi bemolle stridenti sopra un rullo di timpani), i momenti del pericolo (agitato tremolo degli archi), la cima (impressione dell’immensità nel canto dell’oboe), la visione (altro solenne fugato, il motivo della cima che risuona nei registri acuti, quello del sole nella pompa dell’organo, quello della montagna nell’imponenza delle trombe, dei tromboni e delle tube), il levarsi della nebbia (atmosfera lugubre mediante lo heckelphon), il sole che a poco a poco si oscura (delicati accordi delle trombe con sordina accompagnano il tema del sole che si ascolta nell’organo), l’elegia dell’ora (oboe contralto), la quiete prima del temporale (nei timpani rugge sordamente il tuono, nel flauto e nel clarinetto serpeggiano lampi lontani, con flauto, oboi e pizzicati di violini si imita il cadere delle prime gocce), la burrasca e la tempesta (scatenamento generale dell’orchestra e della percussione), la discesa, il tramonto, le ultime risonanze e infine, ancora, la notte (accordo pianissimo in si bemolle minore).
Graf Nicolaus Seebach
Also sprach Zarathustra (Così parlò Zarathustra), op. 30
La composizione del Poema Sinfonico Also sprach Zarathustra (Così parlò Zaratustra) assorbì Richard Strauss per un periodo di sette, mesi, fra il febbraio e l’agosto 1896. Lo stesso autore diresse la prima esecuzione il 27 novembre dello stesso anno a Francoforte, con la Museum Städtlisches Orchester. All’età di 32 anni Strauss era al culmine del successo, personaggio di punta della vita musicale tedesca, non solo per la brillante attività di direttore d’orchestra (ricopriva la carica di Kapellmeister presso la Hofoper di Monaco) ma per la sua immagine di compositore d’avanguardia. Nessun giovane autore si era proposto in modo così convinto come erede della corrente neotedesca di Wagner e Liszt – ovvero quella corrente che, opponendosi a una finalizzazione “pura”, fine a sé stessa della musica, insisteva sulla necessità di donare alle composizioni musicali un contenuto programmatico, letterario o comunque preferibilmente narrativo, che integrasse e chiarisse il contenuto musicale esposto da un’orchestra di grandi dimensioni, duttile e docile nei confronti di qualsiasi intenzione descrittiva. Il lungo ciclo di Poemi Sinfonici nato fra il 1886 e il 1898 costituisce dunque un vero monumento di un credo musicale fermamente enunciato. Alle otto composizioni di quegli anni – Aus Italien (1886), Don Juan (1888-9), Macbeth (1886-91), Tod und Verklärung (1888-9), Till Eulenspiegel (1894-5), Also Sprach Zarathustra (1896), Don Quixote (1896-7), Ein Heldenleben (1897-8) – dovevano seguire poi negli anni successivi altri due lavori di simile ispirazione, la Symphonia Domestica (1902- 3) e Eine Alpensinfonie (1911-15).
Also sprach Zarathustra è dunque la terzultima delle prime otto composizioni, e si colloca approssimativamente a metà strada dell’intero percorso. Non a caso è anche l’opera giudicata in termini più controversi dai commentatori: come punto d’arrivo di una fase “ascendente” della produzione sinfonica straussiana – in cui la equilibrata economia delle partiture si adatta in modo mirabile all’assunto programmatico -, o invece come prima manifestazione di una fase “discendente” – in cui alla dilatazione delle partiture corrispondono una dispersione del materiale musicale e una involuzione ideologica delle tematiche trattate. In effetti Also sprach Zarathustra è il primo dei Poemi Sinfonici di Strauss ad estendersi per una lunga durata, e a comportare forti connotazioni ideologiche, ma appare nel contempo una delle partiture più importanti e innovative dell’intero ciclo. Elemento centrale e peculiare di tali caratteristiche è ovviamente il rapporto con il testo letterario al quale l’opera si ispira.
Friedrich Nietzsche aveva scritto Also sprach Zarathustra fra il 1883 e il 1885, apponendovi come sottotitolo “un libro per tutti e per nessuno”; espressione con la quale intendeva riferirsi alla scelta di creare uno scritto filosofìco che operasse una riforma chiarificatrice nell’esposizione, sottraendo il contenuto filosofìco a un linguaggio tecnicistico (un libro per tutti); e
contemporaneamente alla scelta di un tono mistico che rischiava di chiudere ogni varco di accesso alla comprensione di pensieri solitari ed eletti (un libro per nessuno). Nel testo il profeta Zarathustra decide di tornare nel mondo, dal quale si era ritirato in meditazione, e scende, “tramonta” fra gli uomini a svelare la sua parola, in circa ottanta discorsi tenuti in tono lirico e visionario sugli argomenti più disparati.
Affontando per sommi capi – e con inevitabile banalizzazione – il contenuto del testo nietzschiano – che, nella sua complessità, è stato spesso variamente e anche equivocamente interpretato – si deve osservare che in esso vengono proposti tre temi fondamentali: la morte di Dio – concetto ripreso dalla Gaia Scienza – ovvero il progressivo distacco dell’occidente da Dio, che equivale alla sua uccisione, e comporta anche il crollo dell’impalcatura di credenze e certezze che hanno accompagnato l’umanità per 2000 anni; quindi l’idea del superuomo – anzi dell’oltreuomo, Übermensch – ovvero l’uomo nuovo che supera questo vuoto di valori perché ha reciso i legami col trascendente e ha scoperto il valore della propria natura corporea e terrena, grazie a una forza creatrice che gli permette di sostituire ai vecchi doveri la propria volontà; infine l’eterno ritorno, per cui il crollo delle certezze della metafisica riguarda anche la concezione giudaico-cristiana della finalità dell’universo, che invece non ha un inizio e una fine, non ha un senso intrinseco, ma è essenzialmente eterno ritorno all’identico.
Ovvio che quest’opera avesse provocato immediatamente una immensa ripercussione sulla cultura tedesca, sia per il peculiare stile espositivo, sia per le tematiche ideologiche nelle quali la Germania guglielmina si era riconosciuta, o aveva creduto di riconoscersi (basterebbe ricordare che anche Gustav Mahler attinse a Also sprach Zarathustra per il testo del Lied inserito nella sua Terza Sinfonia, terminata nel medesimo anno del Poema Sinfonico di Strauss).
Non stupisce che anche Strauss, uomo che non faceva mistero dei suoi orientamenti anticristiani, venisse affascinato dal profeta Zarathustra e dall’oltreuomo che controlla il suo destino attraverso il suo potere individuale. Più delicato è stabilire fino a che punto e in che modo il contenuto del testo di Nietzsche venisse assimilato ed esposto nel Poema Sinfonico. In origine il compositore pensò a un sottotitolo complesso per la partitura: “Ottimismo sinfonico in forma fìn-de-siècle, dedicato al XX secolo”; in seguito preferì una dicitura più sobria: “Liberamente da Nietzsche”. Appose quindi all’inizio della partitura il primo paragrafo della prefazione del libro, a guisa di indicazione programmatica; in esso si dice come Zarathustra, giunto a trent’anni, decida di iniziare la sua predicazione presso gli uomini (il parallelo con la figura di Cristo non è casuale) e si rivolga al sole, invocandone la benedizione. Inoltre il compositore scelse otto frasi del testo letterario, con ognuna delle quali contrassegnò una diversa sezione della partitura (precisamente: Di coloro che
abitano in un mondo dietro l’altro; Del grande anelito; Delle gioie e delle passioni; II canto dei sepolcri; Della scienza; Il convalescente; Il canto della danza; Il canto del nottambulo).
È probabile che all’origine di questa selezione ci fosse prima di tutto una logica musicale; le frasi scelte si prestavano meglio di altre a stimolare la fantasia creativa dell’autore (vi prevalgono infatti riferimenti a canti e danze). Il rapporto fra il testo letterario e la partitura musicale, infatti, non è certo quello di mera illustrazione descrittiva dei concetti filosofici; e nemmeno si deve trovare una pedissequa corrispondenza fra le otto frasi apposte come epigrafi e le seguenti sezioni musicali. Al di là dei propositi illustrativi – sulla cui interpretazione non c’è sempre unità di vedute da parte dei commentatori – l’intera partitura si muove in direzione di una affermazione idealistica, e riflette il tono visionario e l’ambiguità semantica del libro, convertiti però in termini puramente musicali.
Ed è infatti ad una logica musicale che occorre rifarsi per comprendere e apprezzare il lavoro di Strauss. Non a caso la scansione secondo gli otto titoli tratti da Nietzsche non corrisponde affatto all’organizzazione formale della partitura; questa è assai più libera che non nei precedenti Poemi Sinfonici; piuttosto che una forma sonata o un Rondò, vi troviamo quattro principali episodi, ciascuno dei quali seguito da uno sviluppo (tranne il terzo episodio, seguito da due differenti sviluppi); il tutto incorniciato da una introduzione e da una coda. Piuttosto ristretto è il numero degli elementi motivici di base, dai quali hanno origine tutti gli episodi e gli sviluppi.
Tutto parte dall’introduzione, che è diventata celeberrima per i suoi sgargianti effetti sonori; essa ha comunque significati assai complessi, che trascendono l’aspetto edonistico. Sorge dal nulla, su un brusio dei bassi che ricorda l’inizio del Rheingold di Wagner, e vi sovrappone l’arpeggio “vuoto” Do3-Sol3-Do4 (“vuoto” ossia privo della terza) intonato dalle trombe, quindi l’accordo viene completato con l’inserimento della terza, ma questa scivola dal maggiore al minore, poi dal minore al maggiore, ambiguamente. Riferimento alla natura primigenia, all’oltreuomo, al tramonto che diventa alba e l’alba che diventa tramonto, al dolore dell’uomo: queste poche battute consentono una sovrapposizione di interpretazioni che non si elidono necessariamente a vicenda. C’è poi il crescendo affermativo dell’orchestra, ma quando questa tace, l’organo rimane per una battuta, con un effetto che distanzia in modo illusorio tutta questa introduzione.
Friedrich Nietzsche
Il primo episodio (l’intestazione è “Di coloro che vivono fuori dal mondo”) vede il brusio di violoncelli e contrabbassi, e il tema dei fagotti, come un ritorno alla realtà; di lì a poco i corni espongono il tema del Credo gregoriano; il riferimento è all’incontro di Zarathustra con un religioso che non ha appreso la morte di Dio; e si sviluppa da qui un calmo e denso Corale che è la risposta di Zarathustra. Non sono altrettanto precisi i riferimenti del rimanente della partitura. Il primo sviluppo (“Dell’aspirazione suprema”) si basa prevalentemente su temi dell’introduzione. La seconda esposizione (“Delle gioie e delle passioni”) si apre con un tema scultoreo degli ottoni e si svolge in una drammatica animazione. Il secondo sviluppo (“II canto dei sepolcri”) elabora lo stesso materiale in una prospettiva lirica ma dolorosamente dissonante.
Con il terzo episodio (“Della scienza”) il tema dell'”oltreuomo” dà origine a una fuga, metafora del raziocinio, intonata con grande lentezza nelle regioni gravi; il terzo sviluppo parte da un canto libero dei violini, e lascia apparire ancora nitidamente il tema iniziale. Un ulteriore sviluppo (“II convalescente”) riprende il tema della fuga, intonato drammaticamente soprattutto dagli ottoni, e segue poi una complessa elaborazione, in cui si stagliano i richiami delle trombe. Un lungo oscillare dei clarinetti fra due note vicine – sol-la – , con l’inserimento del tema dell'”oltreuomo” viene risolto dall’ingresso del violino solista; è il momento, magnificamente giocato sui timbri, in cui si avvia il quarto episodio (“II canto della danza”), che consiste essenzialmente in un valzer viennese, presago di quelli del Rosenkavalier; fu uno dei momenti più discussi della partitura dai denigratori di Strauss, ed è invece, nella sua vasta articolazione, una affermazione di vitalismo definita con mano di perfetta eleganza e di grande sapienza costruttiva, anche per le continue apparizioni più o meno criptiche del tema dell'”oltreuomo”, che innervano anche il seguente sviluppo basato sul tema del valzer.
Si giunge così alla coda della partitura, che ha come intestazione “II canto del viandante notturno”; i clangori in cui era sfociata la sezione precedente si smorzano e si convertono in una timbrica rarefatta e sublimata, il cui significato è chiarissimo dalle parole dell’epigrafe: “Ma ogni gioia vuole eternità, vuole profonda, profonda eternità”. È un canto struggente e meditativo che ha la funzione di accogliere e stemperare tutte le tensioni della partitura. Non tuttavia di risolverle, perché il Poema Sinfonico si chiude con una soluzione politonale ardita – le tonalità di si maggiore (accordi di flauti, oboi, arpa e violini) e di do maggiore (ai bassi) sovrapposte – che simboleggia il contrasto fra l’uomo e la natura. Una conclusione, dunque, che lascia fondamentalmente irrisolto il conflitto iniziale e chiude l’ambiziosissima partitura nel segno dell’ambiguità semantica che l’aveva aperta, e che, ancor prima, aveva informato la predicazione per tutti e per nessuno del profeta di Nietzsche.
Così parlò Zarathustra
Giunto a trent’anni, Zarathustra lasciò il suo paese e il lago del suo paese, e andò sui monti. Qui godette del suo spirito e della sua solitudine, né per dieci anni se ne stancò. Alla fine si trasformò il suo cuore, e un mattino egli si alzò insieme all’aurora, si fece al cospetto del sole e così gli parlò:
«Astro possente! Che sarebbe la tua felicità, se non avessi coloro ai quali tu risplendi!
«Per dieci anni sei venuto quassù, alla mia caverna: sazio della tua luce e di questo cammino saresti divenuto, senza di me, la mia aquila, il mio serpente. «Noi però ti abbiamo atteso ogni mattino e liberato del tuo superfluo; di ciò ti abbiamo benedetto.
«Ecco! La mia saggezza mi ha saturato fino al disgusto; come l’ape che troppo miele ha raccolto, ho bisogno di mani che si protendano.
«Vorrei spartire i miei cloni, finché i saggi tra gli uomini tornassero a rallegrarsi della loro follia e i poveri della loro ricchezza.
«Perciò devo scendere giù in basso: come tu fai la sera, quando vai dietro al mare e porti la luce al mondo infero, o ricchissimo fra gli astri!
«Anch’io devo, al pari di te, tramontare, come dicono gli uomini, ai quali voglio discendere.
«Benedicimi, occhio sereno, scevro d’invidia anche alla vista di una felicità troppo grande!
«Benedici il calice, traboccante a far scorrere acqua d’oro, che ovunque porti il riflesso splendente della tua dolcezza!
«Ecco! il calice vuol tornare vuoto, Zaralhustra vuol tornare uomo». – Così cominciò il tramonto di Zarathustra.
DVD 2
Don Chisciotte, op. 35
“El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha”, è un libro pieno di musica. Cervantes però mette in bocca le parole più belle a Sancio Panza, non a Don Chisciotte. «Signora – dice Sancio rivolto alla Duchessa – dove c’è musica non ci può essere cosa cattiva». E nemmeno dove c’è luce e splendore, replica la Duchessa.
Il mondo di Don Chisciotte risuona di molteplici strumenti: trombe, clarini, arpe, ciaramelle, corni, buccine, tamburi, ribeche, zamorane e perfino gli albogues, che sono, come spiega Don Chisciotte a Sancio, «dei piattini metallici come quelli dei candelieri d’ottone, che battendoli gli uni con gli altri dalla parte vuota e cava dànno un suono che, sebbene non sia molto gradevole e armonioso, non dispiace, perché s’accorda con la rusticità della cornamusa e del tamburello».
Non c’è musico che non sia degno dell’attenzione di Don Chisciotte, nel corso delle sue avventure. L’incontro con il Cavaliere degli Specchi avviene per
esempio al suono di una viola, con cui l’altro cavaliere errante accompagna il canto della propria infelicità amorosa.
Tanta finezza d’orecchio non è sorprendente, dal momento che Don Chisciotte stesso è un musico, come si scopre quasi per caso verso la fine del libro. Ospite nel palazzo del Duca, Don Chisciotte rimane sconvolto dalla serenata di Altisidora, che cantando un romance si dichiara vinta dall’amore per il cavaliere errante. Commosso dalla voce della donzella, ma deciso a rimanere fedele a Dulcinea, Don Chisciotte chiede uno strumento, per consolare l’infelice. Non è sprovveduto, nell’arte musicale: «Don Chisciotte trovò nella camera una viola; la provò, aprì la finestra della grata e sentì che c’era gente in giardino; e dopo aver percorso con le dita i tasti della viola e averla accordata il meglio che seppe fare, sputò, spurgò, quindi con una voce abbastanza rauca, ma intonata cantò il seguente romance, da lui stesso composto quel giorno».
La musica, a sua volta, ha ripagato con altrettanto amore Don Chisciotte. Tra le molteplici versioni musicali dell’illustre personaggio, il poema sinfonico di Richard Strauss costituisce forse il massimo capolavoro.
Nato in una solida famiglia borghese di Monaco di Baviera, Richard Strauss rappresenta uno dei principali anelli di congiunzione tra la musica romantica e quella contemporanea. Il padre Joseph era il primo corno dell’Orchestra del teatro di Corte e abile nel suonare molti altri strumenti, soprattutto la viola, mentre la madre Josephine apparteneva all’agiata famiglia Pschorr grossi produttori di birra. Avviato alla musica fin dall’infanzia all’età di sei anni è già in grado di comporre pagine pianistiche. In seguito riceve lezioni di composizione dal maestro di cappella Friedrich Wilhelm Meyer col quale sviluppa un modo di comporre che si richiama alla scuola di Brahms e di Schumann.
La sua carriera di direttore d’orchestra comincia nel 1885 quando viene scoperto da Hans von Bülow che lo porta a Meiningen come suo aiutante e gli fa conoscere il compositore Alexander Ritter fervente apostolo wagneriano, che lo converte al wagnerismo ed alla musica a programma. Da allora per trent’anni Strauss si dedica ai poemi sinfonici, che sono uno dei tratti eminenti della sua fisionomia creativa.
L’idea di dedicare un lavoro a Don Chisciotte viene a Strauss nell’Ottobre 1886 e la sviluppa fino al termine nella partitura il 29 Dicembre 1897. La prima esecuzione di “Don Quixote, variazioni fantastiche su un tema cavalleresco op. 35” è diretta a Colonia da Franz Wüllner l’8 Marzo 1888, con Friederich Grützmachercome violoncello solista.
La partitura sulla scia del wagnerismo, è di dimensioni colossali (prevede l’impiego di 97 esecutori) e permette a Strauss di sviluppare un idioma orchestrale duttilissimo, capace di passare dal tono caustico e beffardo a quello sentimentale, di tratteggiare scenette di forte impatto teatrale e di cercare una dimensione tragicomica popolata da personaggi di grande umanità. La struttura complessa e solidamente costruita, ricca di virtuosismi orchestrali, di invenzioni melodiche e di gustose soluzioni onomatopeiche, dimostra la straordinaria fantasia del compositore e la sua grande abilità nel manipolare il materiale sonoro.
Nonostante la caratterizzazione dei personaggi legata ad alcuni strumenti, a partire dal violoncello per Don Chisciotte, Strauss cerca nell’orchestrazione la continuità sinfonica facendo circolare i materiali tematici tra diverse famiglie strumentali, evitando l’identificazione esclusiva tra personaggio e strumento.
Dal punto di vista formale “Don Quixote” è unico tra i suoi lavori in quanto scritto in una forma di tema con variazioni, utile a sfoggiare il più spinto virtuosismo orchestrale, ma anche a descrivere le diverse peripezie degli eroi messi in scena, seguendo una precisa traccia programmatica. Forse un suo ultimo richiamo a Brahms.
La traccia programmatica che viene comunemente utilizzata per indicare le varie sezioni della composizione, non è presente sulla partitura ma fu scritta in seguito dal compositore che chiese che fosse distribuita tra il pubblico alla prima esecuzione.
Nell’ Introduzione vediamo Don Chisciotte che «perde la ragione a forza di leggere romanzi di cavalleria e decide di diventare lui stesso un cavaliere errante» (qui Strauss si è ispirato alla parte I, capitolo 1 del romanzo di Cervantes). Nel prologo in tempo moderato «ritterlisch und galant» (cavalieresco e galante), viene esposto il tema principale, con una prima frase affidata ai legni, che rappresenta il lato cavalieresco dell’eroe, e una risposta che rappresenta il suo lato galante, affidata alla «graziosa» melodia dei violini. Si succedono quindi i diversi motivi che corrispondono alle fantasie di Don Chisciotte, e che alla fine dell’introduzione si combinano in una densa polifonia. Le note tenute di trombe e tromboni all’unisono segnano il passaggio di Don Chisciotte all’azione. Qui entra il violoncello solo, che espone il tema di «Don Chisciotte, il cavaliere dalla triste figura», e quindi la viola solista che, insieme ai comici disegni di clarinetto basso e tuba tenore, tratteggia la figura dello scudiero Sancho Panza. I ruoli sono quindi distribuiti per la tragicommedia che viene rappresentata in dieci episodi.
La Variazione I mette in scena «l’uscita a cavallo della strana coppia alla ricerca di imprese in nome di Dulcinea del Toboso e l’avventura con i mulini a vento» (parte I, capitoli 7 e 8). I temi di Don Chisciotte e Sancho si combinano in una trama orchestrale che traslittera l’immagine del vento, delle pale del mulino, dello schianto a terra del cavaliere in sapienti giochi strumentali, fatti di rapide figure di biscrome dei violoncelli, suonate col legno, lunghi trilli dei violini nel registro acuto, un estesissimo glissando dell’arpa che si conclude su un violento colpo di timani. Un motivo cadenzale del clarinetto fa da cerniera con la Variazione successiva.
Variazione II «Combattimento vittorioso contro l’esercito dell’imperatore Alifanfaron (combattimento contro il gregge di montoni)» (parte I, capitolo 18). Episodio guerresco (kriegerisch) introdotto da tre violoncelli all’unisono, in fortissimo, e dominato da veri e propri cluster di ottoni e legni, materiali dissonanti e stridenti disposti in ordine caotico con «l’effetto di un vero gregge errabondo e belante, di un immediato iperrealismo» (Principe). La Variazione si chiude improvvisamente dando spazio al brano successivo.
Variazione III «Dialogo fra il Cavaliere e il suo scudiero. Pretese, domande e proverbi di Sancho. Consigli, parole di conforto e promesse di Don Chisciotte» (parte I, capitoli 10, 18, 19). Si tratta di una sezione piuttosto estesa nella quale si assiste a un divertente dialogo tra il volubile Sancho e il sentenzioso Don Chisciotte, che enumera le imprese da compiere. I rispettivi motivi si alternano, si ripetono, si accavallano fino ad una riesposizione del primo motivo dell’opera che si sviluppa in un ampio squarcio lirico.
La Variazione IV corrisponde alla scena della «Disavventura con una processione di penitenti», tratta dall’ultimo capitolo del primo libro di Cervantes (parte I, capitolo 52). In questo episodio è descritto un corteo di pellegrini (un canto liturgico in crescendo, sottolineato dalle solenni armonie degli ottoni), che portano in processione un’immagine della Madonna, e che vengono scambiati da Don Chisciotte per una banda di ladri. L’eroe li attacca ma viene disarcionato dal cavallo e resta prostrato a terra, mentre la processione si allontana.
Joseph Dupont
La Variazione V è invece un Notturno, un movimento privo di azione ma intensamente poetico: «Veglia d’armi di Don Chisciotte. Dolci effusioni all’indirizzo della lontana Dulcinea» (parte II, capitolo 3). Un tempo molto
lento, con la parte del solista disegnata come un grande recitativo, «liberamente declamato, sentimentale», che si sovrappone al tema di Dulcinea «dolcemente espressivo». I languidi sospiri di Don Chisciotte prendono forma in una della pagine più sperimentali della partitura: poche battute di glissandi di arpe, tremoli dei legni, sestine rapidissime dei violini; poi rapidamente si arriva ad un punto coronato in pianissimo che conclude questa variazione.
Netto il contrasto con la Variazione VI «Incontro con una contadinotta che Sancho descrive al proprio maestro come Dulcinea stregata da un incantesimo» (parte II, capitolo 10). Episodio rapido e dal tono grottesco, con la paesana evocata da un tema spigoloso dei due oboi, in un metro che alterna 2/4 e 3/4. Un crescendo degli archi ci porta alla successiva Variazione VII, la celebre «Cavalcata nell’aria» (parte II, capitolo 41), una delle pagine musicalmente più originali della partitura. È la scena nella quale il cavaliere errante e lo scudiero vengono bendati e convinti che, per un incantesimo, stanno volando ad altezze vertiginose. Variazione «breve ma terribile» (Principe), capolavoro di inventiva orchestrale fatto di disegni scalari rapidissimi, che attraversano tutta l’orchestra e ai quali si sommano gli effetti sonori della macchina del vento e gli immensi glissandi dell’arpa./p>
Dopo questa corsa aerea i due eroi si avventurano per mare, nella Variazione VIlI «Sfortunato viaggio sulla navicella incantata» (parte II, capitolo 29). Una Barcarola nella quale l’elemento liquido è suggerito dal fluire delle semicrome, e il naufragio da improvvisi disegni cromatici. La conclusione è un breve inno di ringraziamento (affidato a flauti, clarinetti e corni) di Don Chisciotte e Sancho scampati al naufragio, bagnati e intirizziti dal freddo.
La Variazione IX è il «Combattimento contro i presunti maghi e contro due monaci benedettini a cavallo di mule grosse come dromedari» (parte II, capitolo 8). Solo 25 battute, in un movimento rapido e tempestoso, nel quale i due religiosi sono rappresentati da un dialogo contrappuntistico tra i due fagotti senza accompagnamento, e l’arrivo di Don Chisciotte che terrorizza i monaci, da un pizzicato negli archi gravi.
L’ultima Variazione X , collegata senza soluzione di continuità, è il «Grande combattimento contro il Cavaliere della Bianca Luna. Don Chisciotte, gettato a terra, dice addio alle armi e decide di ritornare a casa e di diventare un pastore» (parte II, capitoli 64, 67, 69). Un combattimento fragoroso al quale partecipa tutta l’orchestra, che lascia appena affiorare la voce del violoncello solo. Poi il ritmo regolare dei timpani e la melodia «molto espressiva» dei legni segnano la ritirata di Don Chisciotte e la sua rinuncia definitiva all’azione.
Il poema sinfonico si conclude con un Finale dedicato alle memorie e alle meditazioni dell’eroe (parte II, capitolo 74): «Ritornato in sé, Don Chisciotte decide di dedicare gli ultimi suoi giorni alla vita contemplativa. Morte di Don Chisciotte». Ritornano i motivi eroici e amorosi, e il violoncello solo canta ancora una volta il suo tema, fino ai sommessi accordi delle ultime battute.
Ein Heldenleben (Vita d’eroe) poema sinfonico, op. 40
Vita d’eroe fu concepito da Strauss, nel 1897-98, insieme al Don Chìsciotte (che gli è superiore per originalità, ricchezza di fantasia e misura espressiva) e forma con esso un dittico sulla figura dell'”eroe”, nella concezione romantica dell’intrepido idealista e dell’artista sognatore. Ma è giusto dire subito che la musica di Vita d’eroe, pur con l’eloquenza sonora che essa ostenta in alcune pagine che esaltano il “grand’uomo” incompreso dal mondo, non ha nessun segno del pessimismo estetizzante o del generico spiritualismo che oggi avvertiamo con distacco in tanti lavori della fine dell’Ottocento. Qui ci sono forza, sicurezza di idee e precisione di disegno, e soprattutto c’è uno spettacolare virtuosismo, che segna un punto di arrivo nell’evoluzione della tecnica orchestrale nata con Berlioz e con Wagner.
Dopo i modi espressivi messi in opera nel meraviglioso Don Chisciotte e in Vita d’eroe Strauss poteva procedere solo trasportando quei mezzi dal sinfonismo puro alla scena. Il che avvenne pienamente sei anni dopo con Salome (1905), di cui Vita d’eroe, per l’esasperazione delle immagini e dei mezzi linguistici, è una specie di antefatto autobiografico. I lavori di Strauss che stanno in mezzo tra Vita d’eroe e l’eroismo perverso della principessa Salome – l’affabile poema sinfonico Sinfonia Domestica (un rovesciamento dello spirito di Vita d’eroe, 1900) e l’opera Feuersnot (un’eco bavarese ma molto brillante dei Maestri cantori, 1901) – ci confermano oggi la necessità quasi naturale del passaggio alla musica teatrale.
Del resto, anche sull’idealizzazione autobiografica e sul pessimismo di Vita d’eroe bisogna intendersi. Strauss era un genio così energico e sicuro di sé, ed anche ironico e scettico al momento giusto, da saper tenere a distanza le mode dell’epoca e da saper sorridere dei suoi stessi entusiasmi: sì che già componendo la sua Sinfonia “eroica” ne poteva fare a parole un’incantevole parafrasi buffa. «L’Eroica di Beethoven è amata così poco dai nostri direttori d’orchestra e per questo oggi si esegue così di rado che io per appagare l’urgentissima necessità di eroismo sto componendo un enorme poema sinfonico intitolato Vita d’eroe, però senza una marcia funebre, anch’esso in mi bemolle maggiore, con tanti corni che sono sempre un chiaro segno di spirito eroico» (lettera di Strauss all’amico ed editore Eugen Spitzweg, 23 luglio 1898). E in modo altrettanto amabile e sbrigativo giudicava se stesso in un colloquio con Romain Rolland, avvenuto a Parigi proprio dopo un’esecuzione di Vita d’eroe (musica che piaceva moltissimo a Rolland, equilibrato ammiratore, sì, di Strauss, ma anche diffidente e spesso severo) : «Lei ha ragione in quello che ha scritto su dì me: io
non sono un eroe; non ne ho la forza necessaria, non sono fatto per la battaglia, preferisco tenermi in disparte, essere tranquillo, starmene in riposo. Non ho una grande genialità [….]» (dal diario di Romain Rolland, 9 marzo 1900, in «Cahiers R. Rolland», n. 3, R. Strauss et R. Rolland. Correspondance. Fragments de Journal, Parigi 1951).
«Io non sono un eroe», «Non sono fatto per la battaglia», dice l’autore di Vita d’eroe, in cui c’è la formidabile descrizione di una battaglia! Che dobbiamo pensare dunque della sostanza ideologica e psicologica di questo poema sinfonico? È Strauss stesso l’eroe ritratto nel quadro musicale grandioso, in faccia ai suoi nemici, a colloquio con l’amata e tra le sue braccia, nel tumulto della battaglia, nella trasfigurata serenità del suo lavoro e dei ricordi, nella pace della natura? La risposta alla domanda che tutti ci poniamo (ed è naturale che ciò accada), per essere una risposta corretta deve essere indiretta. Il poema musicale evoca l’immagine di un artista antiaccademico, antifilisteo, combattivo, appassionato, di una figura ideale, insomma, alla quale Strauss dà anche i tratti della sua vita nella sfera creativa e nella sentimentale-affettiva.
Così comprendiamo il significato e il valore della serie di autocitazioni, imponente e magistralmente costruita in sovrapposizioni polifoniche, che nel quinto episodio Strauss fa dai suoi lavori precedenti (una “teatrale” sfilata di temi e magnifiche melodie dai poemi Don Giovanni, Zarathustra, Morte e trasfigurazione, Don Chisciotte, Macbeth, dall’opera Guntram, dal Lied Traum durch die Dämmmerung: «È uno stupefacente catalogo di autocitazioni, il più completo e il più sistematico in tutta la storia della musica», ha scritto A. Goléa, nel suo Richard Strauss, Parigi 1965). Così ci spieghiamo anche il trascinante lirismo della cosiddetta Liebesstunde, “ora d’amore”, nel terzo episodio (ma la musica che introduce l’episodio e che possiamo definire un “colloquio” tra la donna (3), violino solista, e l’artista, piena orchestra in brevi frasi intercalate alle battute del violino, è eccessivamente lunga e ripetitiva), che è non tanto una descrizione erotica quanto un canto di gratitudine, di tenerezza, un amoroso omaggio di Strauss alla persona più importante della sua vita, ed è una delle pagine somme dello Strauss sinfonico.
Willem Mengelberg
Dunque, ripeto, nella figura ideale e generica dell’artista-eroe Strauss ha incluso anche se stesso, o meglio, egli ha potuto evocare la figura simbolo solo con l’esperienza che egli aveva del suo genio e delle sue forze creative. Ecco perché in questa musica sfolgorante c’è qualcosa di troppo e tuttavia anche si avverte la mancanza di qualcosa di essenziale. Mancano la definizione di un carattere
specifico, la chiarezza del disegno e del gesto, per i quali l’invenzione tematica di Strauss era, e fu poi sempre in seguito, infallibile: manca, appunto, la figura. Manca, dunque, tutto ciò che negli altri eroi dei suoi poemi (e, dopo, nei personaggi delle opere) egli aveva presentato con precisione inconfondibile, come in Don Giovanni, in Till, in Don Chisciotte.
E c’è anche un eccesso di virtuosismo tecnico nelle descrizioni e nelle esaltazioni sonore: il quarto episodio, “L’eroe al campo di battaglia”, per quanto ammirevoli siano la sapienza mimetica e la scienza costruttivo- contrappuntistica, è ancora oggi una sfida alla sazietà dell’ascolto. Eppure non bisogna insistere sulle intenzioni serie e sulla solennità della concezione esistenziale, come ho già detto. Strauss stesso raccomandava di ascoltare e di comprendere Vita d’eroe insieme al Don Chisciotte in una stessa serata, come fossero due parti di un unico poema musicale. E si può anche aggiungere che il significato del tumultuoso epinicio romantico si completa anche, e si attenua, nell’epos familiare e borghese scritto un anno dopo, come congedo dal sinfonismo, la Sinfonia Domestica.
DVD 3
Tod und Verklärung (Morte e trasfigurazione), poema sinfonico, op. 24
Schopenhauer, nel Mondo come volontà e rappresentazione, osservava che nella mitologia indiana (“di tutte la più saggia”) il dio che incarna la distruzione e la morte, Shiva, possiede come attributi la collana di teschi e il linga, la pietra fallica. Il conflitto permanente tra l’individuo e il mondo, tra l’impulso vitale e l’indifferenza della natura, indicato da Schopenhauer, aveva trovato nel Tristan und Isolde di Wagner la sua più alta forma di rappresentazione. Amore e morte è il tema cruciale dell’opera.
La scena finale dell’opera, il canto di Isolde sul corpo di Tristano, cerca la soluzione di quel conflitto nella trascendenza, nel passaggio a una forma “altra”, diversa da quella umana, di concepire quel desiderio di vita, che costituisce la fonte inesauribile dell’eros. Wagner chiamava il Liebestod di Isolde una Verklärung, una trasfigurazione.
Mahler e Strauss concepirono il proprio mondo in sintonia con la cultura del loro tempo, in cui le voci moderne erano Schopenhauer, Wagner, Nietzsche. Su questo sfondo di idee e di sensibilità si collocano entrambe le musiche in programma nel concerto odierno, malgrado le loro grandi differenze formali e spirituali.
La soluzione che Wagner aveva prospettato nel finale di Tristan costituisce lo sbocco poetico anche della terza Tondichtung di Richard Strauss, Tod und Verklärung (Morte e trasfigurazione). La musica fu composta tra il 1888 e il 1890, anno in cui Strauss diresse la prima esecuzione del lavoro a Eisenach. Il programma ideale del pezzo è sintetizzato dall’autore in una lettera del 1894, indirizzata all’amico Friedrich von Hausegger: «Sei anni fa mi venne in mente l’idea di rappresentare musicalmente in un poema sinfonico i momenti che precedono la morte di un uomo, la cui vita fosse stata un continuo tendere ai supremi ideali: un tale uomo è per eccellenza l’artista».
Tod und Verklärung descrive l’ultima notte di un malato, che giace assopito nel ricordo di un momento di felicità. Il sonno leggero è interrotto da un soprassalto del male, finché l’allentarsi della morsa del dolore gli permette di ripensare alle grandi aspirazioni della sua vita. Avvicinandosi alla morte, l’uomo si rende conto che gli ideali per cui ha vissuto e combattuto giungeranno a compimento nella forma più splendilida solo nello spazio eterno, in cui la sua anima troverà finalmente riposo.
L’argomento è esposto in una poesia di Alexander Ritter, che accompagna la partitura. Lo stile enfatico e declamatorio dei versi mescola il Kitsch al gusto macabro ampiamente diffuso tra i giovani artisti dell’epoca, come dimostrano certe pagine di Arrigo Boito o di Iginio Ugo Tarchetti nella nostra letteratura. È interessante però notare come il motivo della trasfigurazione rimanga un tema duraturo nella sua opera. In uno dei Vier letzte Lieder, Im Abendrot, composto a quasi sessantanni di distanza da Tod una Verklärung, Strauss cita molto delicatamente, come un ricordo lontano, il tema della Verklärung intrecciato a quello dei fruendliche Träume, dopo che la voce ha terminato di cantare “è forse questa la morte?”. Non fu, per Strauss, l’ultima citazione di Tod und Verklärung. Quirino Principe racconta così gli ultimi giorni del musicista:
Ai primi di settembre disse ad Alice: “È come se ascoltassi musica!”. “Vuoi carta da musica?” “L’ho già scritto sessantanni fa, in Tod und Verklärung. È così, è proprio così…”. Uremia, angina pectoris, maschera d’ossigeno: l’ultima sua maschera. Erano le 14.12 di giovedì 8 settembre 1949, e un nome fu pronto per l’albo dei rimpianti e delle vanità.
Tod una Verklärung è un’eloquente testimonianza della crisi in cui si trovarono coinvolti i compositori venuti dopo Wagner. La parte narrativa è sviluppata in uno stile naturalistico, che rende problematico il rapporto tra gesto e metafora. Strauss, però, è attento ad articolare il percorso della vicenda su una struttura musicale solida, in una forma riferita all’arco di tensione classico: esposizione – sviluppo – ripresa.
Richard Strauss
In questa fase, incluso il tentativo della prima opera Guntram, Strauss era impegnato a forgiare i mezzi per creare un’originale drammaturgia musicale. Una folta schiera di suoi contemporanei inclinava verso l’imitazione degli aspetti esteriori della musica di Wagner, senza comprendere il senso autentico del suo teatro, che nasce dal ceppo delle forme musicali. Strauss, invece, cercò di continuare in modo moderno la strada di Wagner, mescolando l’idea di dramma musicale con il linguaggio strumentale del suo tempo. L’intero percorso dei Poemi Sinfonici è interpretabile come un grande periodo d’apprendistato teatrale, in cui Strauss mise a punto gli strumenti utili per il mondo prediletto dalla sua natura, quello dell’opera. La ricca immaginazione dell’autore arriva così a ricoprire d’immagini un torso sinfonico, che non è già autentico teatro musicale, ma solo la locandina di un dramma ancora da rappresentare.
È facile seguire sulla partitura, con un occhio al programma poetico, la sequenza degli episodi: la debole pulsazione del battito cardiaco, il sogno di un antico sorriso, l’insorgere della crisi, la lotta contro la morte, il quietarsi del dolore, la visione dell’ideale trascendente. Norman Del Mar ha osservato che Tod und Verklärung si apre su una scena d’opera vera e propria. Si potrebbe forse aggiungere che somiglia piuttosto all’espressionismo del cinema muto, dove l’attore, privato della parola, torce il volto e muove il corpo con gesti esagerati, nell’urgenza di comunicare le emozioni.
Non è da sminuire questa fase di passaggio verso forme più originali. Il desiderio di dar vita con la musica a un repertorio d’immagini corrispondeva alla ricerca di un’accelerazione della drammaturgia. Lo stile di Strauss è sempre diretto, anche in queste opere di apprendistato. Il secolo correva più in fretta e l’autore sentiva la necessità di modellare la scena in pochi, essenziali quadri di rapida presa. Non era più il momento delle interminabili notti wagneriane, al loro posto l’autore cerca la plasticità immediata dei gesti e la contrapposizione sintetica delle situazioni. Tod una Verklärung è ricca di riferimenti a Wagner, ma la trasfigurazione della vita nella morte avviene ora all’interno di un tempo scandito dal ritmo dei motori.
Metamorphosen
Aprile 1945, in Germania è annientata ogni fede, ogni speranza di umanità, di arte, di etica. Sull’immensità delle rovine dominano angoscia, infamia, morte. «Sono disperato. La mia amata Dresda – Weimar – Monaco tutto distrutto!» (febbraio 1945, lettera di Strauss a Gregor). L’8 marzo Strauss concluse la partitura sommaria di Metamorphosen, il 12 aprile la partitura definitiva. Il 30 aprile Hitler si uccise nella sua caverna a Berlino.
Metamorphosen è uno dei capolavori più alti e più desolati che mai siano stati concepiti in musica: ed è un capolavoro enigmatico. È un lungo compianto di severa bellezza musicale. Ma, ci chiediamo, è un compianto per chi, su che cosa? Quali idee, quali immagini, quali ricordi nutrono una così profonda tristezza? Durante l’ascolto, a volte, un frammento di tema, un breve disegno musicale, un’allusione additano – vedremo – un pensiero, ma l’ombra subito svanisce immergendosi nell’oscuro cerchio della meditazione.
Prima, e anche dopo, Metamorphosen Strauss è magnificamente diverso, e questa condizione di oscurità interiore gli era sconosciuta. La sua arte, da giovane o da adulto, tardoromantico o neoclassico, eccessivo o sottile, – la sua arte, dicevo, è soggettiva, narrativa, mirabilmente colorita, ironica quando occorre, intimamente legata alle immagini, alla parola poetica, al verso; è esplicita, insomma. Olimpico e sereno come nessun altro artista del Novecento, egli ha osservato e amato la vita, ha compreso, ha sofferto (la prima sconfitta della Germania nel 1918, per esempio, o il colpo irreparabile della morte di Hofmannsthal) sempre sostenuto da una saggezza nata ed educata nel saldo amore per la cultura classica e per quella tedesca, musicale (Mozart, Beethoven, Wagner i suoi astri), letteraria (i tragici greci, Goethe e Schiller), filosofica (Schopenhauer e Nietzsche), di cui sa di essere degno rappresentante, anzi ultimo erede. E di questo parlò con il mondo, declamando o conversando, con serietà o con amabile scherzo.
Era uno strano ottimista, che credeva soltanto nel passato e nella “eterna” rigenerazione dell’arte. Strauss amava poco, infatti, il suo presente, anche se per molto tempo ne fu acclamato e ricco protagonista (e poco o nulla amava i musicisti contemporanei, conservatori o innovatori che fossero, nazionalisti o cosmopoliti). Il suo schietto, ostentato distacco fu scambiato per cinismo dai malevoli (e tuttora c’è chi ripete). Ma non lo era, non lo era affatto. Strauss era troppo intelligente e troppo elegante per essere un cinico. Attraversò i primi anni del truce regime hitleriano con qualche compromesso (anche qualcuno di troppo), qualche umiliazione e molti contrasti, per poter tenere in vita l’umanesimo nella musica. Nella Schweigsame Frau (1935), nella poeticissima Daphne (1938), nel funambolico brano corale Die Göttin im Putzzimmer (1935, eseguito nel ’42), in Capriccio (1942) infine, la musica smentisce la tetraggine dei tempi, ci dice che un futuro degno si edificherà sul grande passato.
Poi anche la tenacia del grande vecchio vacillò. Nel 1943 disse il Willi Schuh una frase grave e commovente, nel tono sarcastico: «Il lavoro della mia vita è finito con Capriccio. Quello che continuo a scrivere a beneficio dei miei eredi e per tenere in esercizio la mano […] non ha la benché minima importanza dal punto di vista della storia della musica».
Paul Sacher
Aveva, dunque, deciso di scrivere per sé solo, di non parlare più al mondo, divenuto ormai tetro, da cui si sentiva estraneo e tradito. Ma la musica non tradì lui, che nel 1942 creò il Secondo Concerto per corno in mi bemolle e nel 1943
l’incantevole Sonatina per 16 flati, in fa maggiore (intitolata Aus dem Werkstatt eines Invaliden “Dalla bottega di un invalido”).
La difesa dalle rovine della storia, la calma delusione su tutto ciò in cui aveva creduto per l’intera vita, l’abbandono del venerato Ottocento romantico per la classicità viennese: questa è la disposizione spirituale di Strauss negli ultimi, orrendi anni della guerra. Le partiture di Wagner sono sempre sullo scrittoio del vecchio musicista, ma non lasciano tracce nella musica. Il vero conforto sono Haydn, Schubert, Mozart sopra a tutti.
Poi con la catastrofe, con la miseria (sì, egli divenne povero!), e alla cruda resa di conti di un intero popolo, anche lo spirito di Strauss cedette. Per la prima volta, e l’unica, la sua musica fu la voce tragica e impersonale della tragedia. In Metamorphosen la musica tedesca dei due grandi secoli, barocca, classica, romantica, compiange se stessa, austeramente canta la sua fine. In queste grìgie, elaboratissime pagine, nell’ostinato giro dei pensieri, Strauss ha rinunciato ad ogni lirismo soggettivo, a tutti gli abbandoni melodici, agli incantesimi orchestrali, ai colori, di cui poteva essere insuperabile maestro.
Questa grande composizione è, dicevo, un enigma, perché suo contenuto sono l’idea e il ricordo dell’arte, il suo atemporale significato e valore, la tradizione delle forme sinfoniche, gli stili, le memorie emotive. Non si tratta affatto di una musica sulla musica, com’era nei linguaggi neoclassici del tempo, ma di una musica della musica, in cui costruzione formale, invenzione, elaborazione tematica e variazione, sembrano nascere l’una dall’altra continuamente integrandosi e rinnovandosi. L’esterno, il linguaggio sinfonico in sé e per sé, il suo valore storico astratto, la tradizione dello strumentalismo tedesco, e l’interno, l’amore, la familiarità e la venerazione di Strauss per quel linguaggio, in Metamorphosen sono tutt’uno. Al celebre tenore Julius Patzak, che dopo aver ascoltato il capolavoro, stupiva di tanta tetraggine, Strauss rispose: «Come potrei sorridere, quando è morta la musica tedesca?»
Nel ricco e duttile materiale sonoro è possibile individuare tre cellule motiviche maggiori, sempre sottoposte (con le minori) a procedimenti di trasformazione, di ‘metamorfosi’. Nelle tre cellule, inoltre, l’immaginazione creativa ha evocato, per frammenti prima (quasi per istinto o in una ricerca di identificazione mnemonica), poi per intero, coscientemente, due impressionanti citazioni, dalla Marcia Funebre della Sinfonia Eroica (la solennità della morte) e dal ‘lamento’ di re Marke nel II atto del Tristano (la delusione e la disperazione del tradimento). Tale dovette essere il vincolo emotivo di Strauss con questa sua musica che egli, pur avendo diretto la prova generale, si rifiutò fermamente di essere tra il pubblico alla prima esecuzione, il 25 gennaio 1946, alla Tonhalle di Zurigo (direttore Paul Sacher, che aveva commissionato e ben compensato il lavoro).
La sorprendente novità dell’organico (che evoca un complesso barocco), 10 violini, 5 viole, 5 violoncelli, 3 contrabbassi, non nasconde, come qualcuno ha erroneamente creduto, un’amplificazione quintupla del tradizionale quartetto d’archi con tre bassi aggiunti, ordinandosi essa invece per responsabilità solistiche di ogni strumento o piccoli gruppi di strumenti a turno. Il titolo, misterioso anch’esso, certamente non allude solo alla tecnica della trasformazione tematica, ma addita le riflessioni di Goethe maturo sulle metamorfosi della natura, ricorda gli amati miti classici, e tenta di stringere forse, una speranza nell’afflizione e nel congedo. Doveva essere l’opus ultimum, che, per nostra fortuna, non fu.