Stravinsky Igor
La sagra della primavera
Herbert von Karajan si esibisce in due dei suoi cavalli di battaglia. Il primo lirico e estroverso, il secondo impressionante per i contrasti ritmici e violenti al limite della tonalità. Magnifici i Berliner Philharmoniker. Registrazioni eseguite dal 1969 al 1977. Audio eccezionale. Imperdibile.
Stravinsky La sagra della primavera
Pensare che la storia della cultura proceda lungo un binario può essere utile in sede didattica ma può portare a una semplificazione che impedisce di comprendere le sfumature di un’opera d’arte. I processi culturali sono invece simili a cerchi concentrici nei quali è frequente trovare tentativi espressivi variegati. La dimensione di ogni presente è sempre eterogenea e la novità di un’opera rispetto a quelle della sua epoca si trova nell’aver rappresentato meglio di altre le tensioni della società in cui nacque. Deriva da qui il valore “profetico” di un’opera, quel saper cogliere come in una premonizione l’essenza del futuro. Inserire la Sagra della primavera in un percorso storico lineare non
permette di coglierne a pieno l’effetto dirompente: al di là della sua novità formale, l’opera rompe con la convenzione in primo luogo perché riesce a gettare una luce disincantata sulla sua epoca e ne coglie le tensioni sottocutanee.
L’idea dell’opera venne a Stravinskij nel 1910, mentre lavorava all’Uccello dì Fuoco per la compagnia dei Balletti russi diretta da Sergej Diaghilev, nel modo che il compositore stesso ci descrive nelle Chroniques (una delle sue biografie): «Un giorno, in modo assolutamente inatteso giacché la mia mente era occupata da cose affatto diverse, intravidi nell’immaginazione lo spettacolo di un grande rito sacro pagano: i vecchi saggi, seduti in cerchio, osservano la danza di morte di una vergine che essi stanno sacrificando per propiziarsi il Dio della primavera». Dalle profondità dell’inconscio giunge a Stravinskij, in modo inaspettato e prepotente, l’immagine di un rito in cui si propizia la divinità col sacrificio umano sperando che ella permetta il ritorno della primavera. In fondo, a pensarci bene, è una visione al contempo trasgressiva e violenta, non certo consona al distillato universo musicale che l’Ottocento aveva coltivato. Ma c’erano state avvisaglie, in molti ambiti della società e soprattutto in quella francese, del fatto che l’accentuata sublimazione delle emozioni avrebbe potuto aprire di contro la strada a un’energia difficilmente controllabile, più antica e profonda, della quale atteggiamenti “primitivi” e neopagani erano evidenti filiazioni.
A queste tendenze di fine Ottocento si sposarono le influenze culturali del processo industriale, l’immagine e il ritmo delle sue grandi macchine, l’energia cieca che esse sviluppavano (si pensi al Futurismo), energia facilmente apparentabile a quella dirompente e incontrollabile dell’inconscio e delle sue sfumature distruttive, materia che la psicoanalisi andava approfondendo in quegli anni. La Sagra della primavera è il punto di incontro di queste tendenze, nelle quali l’istintuale, il “motoristico”, gli aspetti del fauvisme che rifiutavano la cultura tradizionale europea, si manifestavano tutti come bisogni espressivi dell’artista “attuale”.
Come è noto, il 29 maggio 1913 si scatenò un putiferio passato alla storia per la memorabile insurrezione degli spettatori. Ci fu sicuramente un’esagerazione mondana e aneddotica nella descrizione dell’avvenimento, ma è innegabile che la musica di Stravinskij abbia toccato i nervi scoperti di un uditorio sensibile.
L’Adorazione della terra e il Sacrifìcio
Il compositore pensò di proporre il tema della Sagra della primavera a Diaghilev che ne fu subito entusiasta. Stravinskij cominciò così a lavorare con Nikolas Roerich, pittore e scenografo specializzato nell’evocazione del paganesimo, nonché con Diaghilev stesso, per definire la forma dell’opera. La composizione procedette spedita e all’inizio della primavera del 1912,
Stravinskij terminò la partitura, il cui copione ci è giunto in tre differenti versioni. L’ultimo e definitivo divide la Sagra in due grandi quadri: l’Adorazione della terra e il Sacrificio. Questa la traccia di cui disposero gli spettatori del maggio 1913:
Primo quadro: «Primavera. La terra è ricoperta di fiori. La terra è ricoperta di erba. Una grande gioia regna sulla terra. Gli uomini si abbandonano alla danza e, secondo il rituale, interrogano l’avvenire. L’avo di tutti i saggi prende personalmente parte alla glorificazione della Primavera. Viene guidato a unirsi alla terra rigogliosa e orgogliosa. Tutti danzano come in estasi».
Quadro secondo: «Trascorso è il giorno, trascorsa la mezzanotte. Sulle colline stanno le pietre consacrate. Gli adolescenti compiono i loro mitici giochi e cercano la grande via. Si rende gloria e si acclama Colei che fu designata per essere accompagnata agli Dei. Si chiamano gli avi venerabili a testimoni. E i saggi antenati degli uomini completano il sacrificio. Così si sacrifica a larilo, il magnifico, il fiammeggiante».
La generica trama non scende nei particolari dell’opera, in realtà divisa in varie sezioni, ma ne dichiara l’elemento simbolista, presente almeno nelle intenzioni del copione, nel quale colpisce la dimensione antisoggettiva in cui vengono inquadrati i protagonisti. Anche la ragazza destinata al sacrificio («Colei che fu designata per essere accompagnata agli Dei») è parte di una collettività indistinta che si identifica con la natura. Nella Sagra il soggetto è dunque un intero gruppo sociale, fattore che la distanzia quanto mai dal teatro musicale, fondato quasi tutto sulla singolarità dei suoi eroi, nonché dalla gran parte dei balletti precedenti. Ne deriva la mancanza quasi assoluta di un intreccio, sostituito da una serie di cerimonie «mutuate», a dire di Stravinskij, «dalla Russia pagana e unificate da una sola idea fondamentale: il mistero dell’improvviso sorgere del potere creatore della primavera». Altra conseguenza è la rinuncia al vocabolario espressivo di emozioni come l’amore, l’amicizia, il dolore, la nostalgia o simili. L’Introduzione, con la nota frase melodica al fagotto, potrebbe trarre in inganno; in realtà la melodia mantiene una neutralità sua propria e ha la pura finalità di un “richiamo”.
Il mondo delle emozioni romantiche non trova accoglienza nella Sagra, e le soluzioni armoniche che l’avevano descritto si condensano in blocchi sonori la cui unica funzione è quella fenomenologica, ovvero quella di apparire come entità sonore complesse che non sono momenti di un percorso ad ampio raggio. Ne deriva una musica il cui tempo drammatico è sospeso, proprio come in un rito che col ripetere i suoi codici solleva l’attimo al di sopra del tempo.
Sergej Diaghilev
Il principio dinamico fondamentale diventa così il ritmo, di sicuro l’aspetto più innovatore, spettacolare e sconcertante dell’opera, poiché è per le scelte ritmiche che la Sagra appare in tutto il suo splendore come un fenomeno totalmente isolato. Lo si avverte subito dopo l’Introduzione. La sezione intitolata Presagì primaverili gioca su un accordo dalla pulsazione isocrona e dall’accentazione
irregolare: il tradimento dell’attesa, la difficoltà a individuare la sequenza, generano un notevole senso di straniamento. Compare qui il primo andamento “motoristico” dell’opera: l’orchestra si muove come un sussultante pistone. Tuttavia, quando il tessuto sonoro rischia di farsi ripetitivo, il compositore interrompe la sequenza con un canto tradizionale russo, un chorovod, che dona solennità e spazialità religiosa alla scena. Stravinskij gestisce il materiale combinandolo e alternandolo per creare un puro gioco di forme che aumenta o diminuisce la tensione sorprendendo l’ascoltatore. Nel brano successivo (Gioco del rapimento) il compositore introduce altre novità: fa combaciare una struttura ritmica semplice e una struttura metrica irregolare col fine di descrivere l’antagonismo degli elementi in scena (inseguimento dei rapitori e fuga della vittima). Tale fattore ritmico caratterizza anche la sezione intitolata Ronde primaverili, dove, a piena orchestra, ricompare anche il solenne chorovod. Il passaggio di strutture ritmiche e di cenni tematici da un brano all’altro assicura all’opera una certa unità.
I Giochi delle città rivali e il Corteo del Saggio presentano ancora nuovi aspetti della ritmica stravinskiana. Il primo ha una sola unità ritmica, la croma, che gioca su una dialettica tra accento stabilito e tempo forte variabile, mentre il Corteo del Saggio, pur avendo una metrica invariabile, apre il campo a una poliritmia favolosa dove ogni strumento procede secondo propri ritmi. L’intenzione di Stravinskij nella Sagra è quella di rendere dialettico, in generale, il rapporto fra ciò che nella musica è costituito a priori (per esempio, le battute con i tempi forti e deboli) e ciò che invece è mobile, un’intenzione che anima tutta la partitura e dalla quale proviene il suo fascino straniante. Il senso dell’antico e del primitivo è raggiunto anche con l’uso di melodie popolari russe: si è fatto cenno al chorovod che compare nei Presagi primaverili e nel Gioco del rapimento, ma anche quello presente in Cerchi ha un suo ruolo simile, più tendente però alla poeticità che alla solennità. Il brano seguente, la Glorificazione dell’Eletta chiamata negli abbozzi di Stravinskij “Danza selvaggia”, è per potenza e originalità uno dei culmini dell’opera. L’assenza dei bassi, gli slanci verso il sovracuto, le proiezioni sonore discontinue, sembrano sfidare la legge di gravita e porsi in contrapposizione con i brani successivi, intitolati l’Evocazione degli antenati e l’Azione rituale degli antenati dotati entrambi di un andamento più processionale, quasi fossero tappe di relativa stabilità tra la Glorificazione e la Danza sacrale che segue.
In questo ultimo brano l’autore si pone un’altra difficile sfida: l’intensità si contrappone alle masse (egli richiede infatti a pochi strumenti intensità oltre il fortissimo: sarebbe stato più facile ottenere effetti di grandiosità con tutta la massa orchestrale), mentre i registri degli strumenti mirano a realizzare contrasti timbrici paradossali. L’effetto ottenuto e la difficoltà nel raggiungerlo
vengono dunque percepiti insieme, dando luogo ad un esito semantico unico per l’epoca.
Nel finale la Sagra presenta una voluta ambiguità tecnica, ricercata non solo per la novità del suo risultato uditivo. Al di là di tutto il suo scoppiettante formalismo, l’opera denuncia (forse è questo che gli spettatori dell’epoca ebbero difficoltà a tollerare) una dialettica sempre più difficile tra singolo e società, difficoltà profetica alla luce di quello che sarebbe di lì a poco accaduto in Europa.
I cent’anni della Sagra
Cosa può scandalizzarci oggi nell’ambito dell’arte? La domanda è lecita, soprattutto nel centenario della Sagra della primavera. Lo scandalo presuppone certi valori, magari proclamati e poco praticati, ma li presuppone. I valori presumono una società compatta che condivide alcune idee, situazione poco riscontrabile nella frammentazione di oggi. Pensiamo spesso da singoli e, soprattutto nelle cose artistiche, dubitiamo tra noi della qualità di un’opera ma non ne facciamo un problema di scandalo. Se la Sagra abbia (inconsciamente) denunciato davvero il pericolo di una regressione sociale alla barbarie (come poi accadde) o cavalcasse ad agio dell’autore certe tensioni senza reale volontà di denuncia, è questione inestricabile. Sono passati cento anni ed è certa una cosa: la Sagra della primavera, oggi, ha una funzione diversa da quella che aveva quando apparve: forse potrebbe insegnarci cosa è lo scandalo…
In occasione del centenario le riflessioni in proposito si sono moltiplicate: critici, musicologi – citiamo ad esempio il bell’articolo pubblicato il 18 settembre 2012 sul “New York Times” a firma di Anthony Tommasini: Shocking or Subtle, Still Radical – e istituzioni concertistiche, celebrando questo anniversario, si pongono interrogativi sulla reale funzione dell’arte, sul suo ruolo nella società contemporanea, sulla capacità di un’opera d’arte di essere trasgressiva e provocatoria, e se è o no lecito esserlo con il solo obiettivo di far parlare di sé, dando vita ad una palese iniziativa pubblicitaria.
Stravinskij e Diaghilev, artisti geniali e impresari di rara scaltrezza, avevano voluto lo scandalo e ne erano soddisfatti (“era esattamente ciò che volevo” esclamò Diaghilev alla fine della serata); sapevano che questo avrebbe assicurato loro il successo.
Igor Stravinsky
Quanto genio, però, nello strapotere ritmico di questa partitura. I valori del movimento e del corpo sono esaltati da una musica dalla fisicità travolgente. Altri importanti compositori di quel periodo hanno scritto cose più radicali ma difficilmente così scioccanti; ad essere scioccante era anche la tematica, che
importava un rito primitivo nella raffinata società parigina (che comunque è stata la culla del modernismo novecentesco). Cosa leggevano i parigini in questa vicenda, alla luce del Romanticismo che avevano vissuto e prima delle guerre mondiali? Forse avevano individuato una minaccia latente, o magari l’avevano presa come un’accusa.
La partitura della Sagra della primavera è lunga e complessa ma possiede una comunicativa immediata. Un altro aspetto per cui ci può essere utile è la sua capacità di passare all’ascoltatore trame complesse in modo diretto e spontaneo. L’augurio di questo centenario è dunque che la Sagra ci instradi, con la lungimiranza del suo ingegno e con il ragguaglio minaccioso della sua trama, verso un miglioramento sociale che passa inevitabilmente per lo scandalo.
Sergej Prokofiev Sinfonia n. 5 in do diesis maggiore op. 100
Le sette Sinfonie composte da Sergej Prokof’ev coprono un lungo arco di tempo, dal 1916 al 1952, l’anno che precedette la sua morte. Fra queste la Quinta in si bemolle maggiore op. 100 contende alla Prima in re maggiore op. 25 detta “Classica” il primato in fatto di notorietà e frequenza di esecuzione. Ben poco le accomuna: la “Classica”, concisa, scintillante, vaporosa, è un capolavoro di virtuosismo in punta di penna che si ispira, per ammissione dello stesso autore, a Haydn e alla tradizione settecentesca; l’assai più tarda Quinta, massiccia, granitica, solennemente cesellata, celebra tutt’altre certezze, infondendo nuovo vigore a un genere ormai prossimo all’estinzione ma tutt’altro che refrattario a impennate orgogliose, estreme. Anzi, capace di accettare ogni tipo di sfida.
Che si tratti di una Sinfonia in piena regola lo dimostra anzitutto l’articolazione formale nei canonici quattro movimenti, invertiti però rispetto all’ordine usuale secondo l’alternanza di tempi lenti, qui i dispari, e veloci, conseguentemente i pari; a ciò si aggiunga la disposizione circolare delle tonalità, si bemolle maggiore all’inizio e alla fine, re minore e fa maggiore così accostati in successione nei movimenti centrali: uno schema che più elementare e chiuso non si può. La scelta è chiaramente intenzionale e dimostrativa, di una evidenza apodittica. Circostanza che ha contribuito al successo popolare della Sinfonia per la sua immediatezza comunicativa, creando però non pochi equivoci nelle conclusioni sulla sua vera natura.
Fu Prokof’ev stesso a indicare lo stato d’animo da cui essa era nata: «Nella Quinta Sinfonia ho voluto cantare l’uomo libero e felice, la sua forza, la sua generosità e la purezza della sua anima». Mettendo in relazione questa affermazione con il periodo in cui la Quinta fu composta, l’estate del 1944, e con le reazioni di entusiasmo suscitate dalla prima esecuzione avvenuta a Mosca il 13 gennaio 1945, si è soliti vederne un riflesso degli avvenimenti
dell’epoca: l’eco trionfale della vittoriosa liberazione del territorio russo dalle truppe tedesche che l’avevano invaso, e l’adesione a un ottimistico spirito patriottico finalmente obbediente ai precetti del “realismo socialista”. Niente di più falso. La Quinta è la meno russa tra le Sinfonie di Prokof’ev e nello stesso tempo la più “tedesca” per appartenenza culturale: un modo davvero curioso di celebrare le sorti magnifiche e progressive propagandate dall’ideologia del suo Paese.
Le certezze di cui Prokof’ev si fa carico in questa partitura sono di altra natura: non meno utopica di quanto la sua franca, solare dichiarazione inviti a credere. La fiducia nell’uomo libero e felice che l’ispira è di ordine morale e autobiografico: in altri termini, quell’uomo non esiste se non nelle scelte personali dell’artista. E queste scelte travalicano le contingenze della storia, per proiettarsi in un mondo ideale, di ideali che si realizzano, a tacer d’altro, proprio nell’abolizione di barriere e separazioni, di guerre e rivendicazioni, di contrapposizioni di epoche e stili. La Sinfonia così come Prokof’ev la intende è terra d’incontro di spiriti eletti che non si curano delle atrocità della storia, qualunque sia il vincitore. La superano di slancio. E in questo stanno la forza e la generosità, da ultimo la purezza della loro anima.
La disciplina formale che Prokof’ev s’impone nella Quinta Sinfonia proviene dalla convinzione che solo un sistema di regole astratte possa contribuire concretamente a creare la libertà. E non è illusione, la sua. La Quinta è la più atemporale fra le sue Sinfonie, la meno condizionata da uno stile acquisito e riprodotto. L’invenzione si mantiene costantemente alta perché in alto mira la volontà di concentrarsi e di captare le associazioni fra i suoni; l’elaborazione è severa nella variazione delle cellule tematiche (primo movimento, Andante), nitida e vitale nel principio concertante delle famiglie strumentali che dialogano sommessamente e delicatamente, animate da una serena leggerezza anche nella intensificazione dei crescendo (ultimo movimento, Allegro giocoso). Prokof’ev alza il tiro della decantazione lirica, dell’eleganza timbrica, dell’iridescenza armonica: mai come nella tersa distensione dell’Adagio, aperto da una sinuosa frase dei clarinetti arabescata dagli archi, si percepisce la nostalgia di un’intatta purezza, che esiste solo per essere continuamente desiderata. A poco a poco la tensione pare montare, sprofonda nei registri gravi dell’orchestra, si acuisce nella drammaticità delle iterazioni, per sciogliersi arcanamente in progressiva dissolvenza.
Sergei Prokofiev
E quale gioia nel riconoscere ora la funzionalità degli incastri, il sorriso di un’ironia bonaria, ammiccante, nell’equilibrio della totalità idealmente ricostituita, nella misura delle proporzioni ampliate ma non sfigurate.
Solo nell’Allegro marcato questo sorriso diviene ghigno beffardo e sberleffo. Par di assistere, nelle trovate geniali di questo Scherzo con Trio, a una caricatura che ricorda di quale sarcasmo fosse capace Prokof’ev. Il gesto graffiante, nel rincorrersi ostinato di frammenti lanciati per aria all’impazzata, nella baldoria da circo o da banda di paese un pò alticcia, o magari di parate militari che sfilano impettite nel loro stupido orgoglio, è quello di chi sapeva guardare il mondo con divertimento misto a orrore: un umorismo grottesco. L’eco della guerra, e sia pure di una guerra vinta, è tutta nella musica militare di questo movimento, ritmata dalla batteria: un grido lancinante camuffato da insensata allegria, un brivido di angoscia che non trova pace neppure quando è passata la paura. Non v’è trasfigurazione in questa musica ebbra di frenesia, rigonfia di artefatta volgarità. Giacché di fronte alla guerra ogni artista riconosce solo la propria impotenza e, se può, passa oltre, a reinventare in sogno la vita.