Von Weber Carl Maria

Il Franco Cacciatore

Quest’opera non ha mai avuto rivali e per ottime ragioni (sebbene Kubelik, alla fine dei conti, sia una valida alternativa.) Una di queste ragioni è l’attenta e amorevole attenzione di Carlos Kleiber per i colori orchestrali e per i dettagli del brano musicale, oltre all’abilità, di Kleiber e dell’orchestra, di esprimermeli al meglio. In breve, il colore e l’atmosfera di questo disco non hanno eguali, dall’allegria fatata delle scene di gruppo, passando per lo spavento, il mistero e i cattivi presagi fino ad arrivare alla cupa, pressante e potente Valle dei Lupi, che non ha eguali e da sola fa sì che ogni amante d’opera debba comprare questo disco. Ho sentito critiche sui tempi di Kleiber, e in effetti si prende più libertà di altri (a volte è più veloce, altre più lento). Posso concludere che Carlos Kleiber sapeva esattamente cosa stesse facendo, ogni scelta di tempo che inizialmente sembra solo un po’ stravagante, risulta poi essere estremamente convincente, come se non potesse essere suonata in altro modo.
Il successo è poi assicurato dal superbo cast. Peter Schreier nell’interpretare Max è sbalorditivo, in qualche modo ancora più riflessivo (e accorto) del solito, ma canta così superbamente ed è così pieno di carattere che non riuscirei ad immaginare nessuno che riesca a dargli così tanta vita come fa Schreier in quest’opera. Gundula Janowitz ha più meriti per la sua favolosa voce che per la rappresentazione teatrale (sebbene non ci sia certamente nulla di sbagliato).
Una performance ineguagliabile degna di una etichetta stellare come la DGR. Altamente raccomandato per non dire imperdibile!

Il franco cacciatore

La patente di “manifesto dell’opera musicale romantica” che accompagna fin dalla nascita Der Freischütz di Carl Maria von Weber ha un valore non soltanto storico ma anche ideologico. Molti se non tutti gli elementi che concorrono a definire il quadro storico del Romanticismo tedesco, con aderenze spazianti dalla musica alla letteratura, dalla filosofia alle arti figurative, vi sono presenti in calcolata proporzione; quasi che l’autore, impegnato in veste di drammaturgo non meno che di compositore, li avesse voluti consapevolmente riunire in un’organica, armoniosa sintesi dell’universo romantico e in quanto tale rappresentarli. Per questa rappresentazione Weber si attenne a una forma di teatro non nuova nel suo genere – il Singspiel in lingua tedesca, misto di recitazione e di canto – ma capace di realizzare con immediatezza gli scopi di un ambizioso progetto: creare un’opera nazionale resa universale dalla musica.
La molteplicità di caratteri e di piani presenti nella sua tessitura è uno dei dati più rilevanti del Freischütz. Non si allude soltanto all’ambiente, ai personaggi e alle situazioni dell’intreccio, che benché abbiano un concreto riferimento storico (l’azione ha luogo in Germania, poco dopo la fine della guerra dei Trent’anni) appartengono piuttosto all’eternità senza spazio e senza tempo del racconto popolare e fantastico, con sconfinamenti nell’immaginario fiabesco; bensì soprattutto alla compresenza di fattori linguistici e perfino stilistici della più varia estrazione, e del tono più diverso: ora accostati in naturale progressione di continuità ora fortemente e deliberatamente contrastanti.
Ciò che conferisce unità a questi passaggi è il ruolo illuminante e coesivo della musica, che pervade i sedici numeri dell’opera distribuiti in tre atti e indirizza i diversi fili dell’azione verso un centro ideale di assoluta esemplarità. E a sua volta la musica, pur così diversificata nei suoi elementi, si colloca al centro di un universo espressivo che racchiude nel piccolo mondo di un villaggio montano l’immensa utopia dell’infinito romantico, e attinge così una soglia eminentemente simbolica e trasfigurante. Ascoltando la musica, si ha continuamente l’impressione che questa, anche nei momenti più descrittivi o realistici, esorbiti dalle situazioni del testo, per conferire con i suoi temi, i suoi ritmi e i suoi colori, un significato più alto, potenzialmente onnicomprensivo, agli stessi elementi di cui via via è costituita in rapporto al dramma.

Alla base del libretto del Freischütz (che da noi venne tradotto Il franco cacciatore) sta la novella omonima pubblicata nel 1810 in un’antologia di racconti fantastici intitolata Gespensterbuck (“Libro di fantasmi”), a cura di Johann August Apel e Friedrich Laun. Weber la conobbe già in quell’anno e se ne entusiasmò al punto da pensare subito di ricavarne il soggetto per un’opera. Il progetto fu però accantonato in favore di una farsa turchesca allora più alla moda, Abu Hassan, chiaramente ispirata al Ratto dal serraglio di Mozart, che di Weber era il lume, e venne ripreso solo sette anni più tardi; quando l’incarico nel frattempo ottenuto come direttore dell’Opera di Dresda, una posizione di alto prestigio, offrì a Weber le condizioni ottimali per portare a maturazione le proprie idee di un teatro nazionale tedesco. Ciò significava anzitutto arginare l’invadenza del melodramma italiano, che aveva a Dresda una sua roccaforte, opponendogli, sul modello consolidato del teatro di prosa, un genere imbastito di recitazione e dì musica i cui contenuti affondassero nello spirito e nella tradizione del popolo e che risultasse, come Weber da tempo vagheggiava, “un tutto nel quale arti sorelle che vi sono impiegate si fondono l’una nell’altra fino ad annullarsi e formare un nuovo universo”.
Autore materiale del libretto fu Johann Friedrich Kind (1768-1843), uno scrittore in vista nell’ambiente culturale del tempo (Weber lo aveva conosciuto frequentando il circolo del “Tè dei poeti”, associazione letteraria di una certa importanza a Dresda). Ricevuto da lui l’adattamento completo il 1° marzo 1817, Weber iniziò la composizione il 2 luglio, partendo dal duetto fra Agathe e Ännchen del secondo atto, le cui melodie gli “zampillarono di getto”. La struttura stessa del libretto, che contemplava parti musicali intercalate a brani in prosa recitati secondo l’uso del Singspiel, consentiva al musicista di seguire la sua ispirazione saltando per così dire da un numero all’altro: fatto che spiega, pur all’interno di un complesso tematico ordito di profonde relazioni nello sviluppo narrativo, la vigorosa autonomia di ogni brano, che sembra quasi esaurire in se stesso, musicalmente parlando, la generosa ricchezza del materiale tematico di base.
Non meno decisivo ai fini della riuscita globale del lavoro fu però l’apporto del compositore (e, come sembra, di sua moglie Caroline Brandt, cantante di talento del cui istinto pragmatico egli si fidava ciecamente, al punto da considerarla la sua “galleria popolare con due occhi”) nella stesura drammatica del libretto, ossia nella distribuzione definitiva delle scene. Ciò fu causa di non poche frustrazioni per le ambizioni teatrali di Kind, convinto di essere lui in primo luogo l’artefice di un capolavoro. A parte la riduzione degli atti da quattro a tre, in origine l’opera doveva aprirsi con due scene introduttive tra Agathe, Ànnchen e poi l’Eremita, in modo da esporre le premesse della vicenda secondo le normali convenzioni del teatro di prosa. Weber si rifiutò di musicarle, ritenendo che l’azione dovesse invece cominciare direttamente con una vivace scena d’ambiente e con il coro dei contadini “Vittoria, vittoria”: l’ebbe infine vinta, ma non poté impedire che accanto allo spartito il libretto venisse stampato nella versione integrale voluta da Kind. Il raffronto testuale con le modifiche di questo e di altri passi dimostra che l’intuito di Weber, evidentemente sostenuto dalla piena consapevolezza circa i requisiti della propria musica, non sbagliava: a prescindere dalle qualità letterarie del libretto, in sé non eccelse ma neppure indegne di accogliere gli slanci vertiginosi della musica, e posto che se ne accetti di buon grado la lingua e la drammaturgia senza pretendere che assomiglino ad altro (l’opera italiana e francese da un lato, il dramma musicale dell’avvenire dall’altro), il taglio del Freischütz appare convincente nelle sue proporzioni, per esse pensato perfino negli scarti favolosi e nelle trasformazioni a prima vista incongruenti dello svolgimento e dello scioglimento finale: un’accusa, questa d’incongruenza, ch’esso condivide tranquillamente con il Ratto dal serraglio, Il flauto magico e Fidelio, i suoi gloriosi antenati nella genealogia dell’opera tedesca prima dell’avvento di Wagner.
Concepito a Dresda, dove la gestazione della partitura fu compiuta il 13 maggio 1820, in un tempo dunque insolitamente lungo e meditato nel corso del quale esso cambiò perfino più volte nome (prima Der Probeschuss, “La gara di tiro”, poi Die Jügersbraut, “La sposa del cacciatore”, per tornare da ultimo al titolo originario), Der Freischütz fu rappresentato per la prima volta il 18 giugno 1821 a Berlino nel rinato Königliches Schauspielhaus am Gendarmenmarkt, ricostruito da Karl Friedrich Schinkel dopo l’incendio che l’aveva distrutto. Una vecchia volpe di impresario dell’aristocrazia prussiana, il conte Karl von Brühl, sovrintendente dei Teatri Reali berlinesi, aveva fiutato il colpo offrendo a Weber la prima assoluta della sua opera a condizioni estremamente vantaggiose: l’avrebbe diretta lui stesso con sei settimane di prove e con una compagnia di cantanti-attori di prim’ordine; tanto di prim’ordine che la prima interprete di Ännchen, Johanna Eunike, pretese una seconda aria per la sua parte e ottenne la splendida romanza con viola obbligata del terzo atto “Einst trumte meiner sel’gen Base”, composta da Weber il 28 maggio durante le prove.
Il battesimo del Freischütz coincise con la prima rappresentazione di un’opera musicale del nuovo teatro di Schinkel, dopo l’inaugurazione simbolicamente affidata all’Ifigenia di Goethe: pensar affratellati in quel meraviglioso tempio dell’arte, a pochi giorni di distanza, due capolavori così diversi e complementari, a noi mette ancora i brividi. Se Goethe era ormai un classico venerato, il trionfo che arrise a Weber, incondizionato e sensazionale, sanzionò il riconoscimento che si era aperta una nuova epoca del teatro musicale; i cui echi, amplificati in rintocchi trionfali, avrebbero invaso il mondo intero, superando l’orgogliosa affermazione che con quell’opera l’anima tedesca si era finalmente ricongiunta con lo spirito dell’arte e con il sentimento del popolo, divenendone la più compiuta espressione in senso nazionale. Tanto da far provare a Wagner la gioia di essere tedesco per il solo fatto di esser nato nella terra da cui era sorto Der Freischütz!
Può apparire curioso che nella locandina della prima rappresentazione berlinese l’azione fosse indicata in Boemia e non nelle montagne tedesche, e che non vi figurasse il sottotitolo “opera romantica in tre atti”, ma solo quello di “opera in tre parti, dalla fiaba popolare Der Freischütz”. L’una e l’altra specificazione furono aggiunte in seguito, per così dire a riconoscimento avvenuto di un’opera autenticamente “tedesca” e “romantica” (così per esempio la sentirono, fortemente, ancor prima di Wagner, Mendelssohn, Heine e con qualche caustica riserva E. T. A. Hoffmann, presenti alla prima rappresentazione). Affermare che solo a cose fatte Weber acquistasse coscienza del “vero” carattere della sua opera e lo ratificasse ufficialmente sarebbe senz’altro eccessivo; eppure, sembra di avvertire che forse inconsciamente e solo strada facendo gli si chiarisse fino a che punto, sulle pur solide e sperimentate impalcature del Singspiel, egli si fosse spinto nel caricare la musica di un potere magico inaudito, ipnotico ed evocativo: insieme realistico e fantastico.
Realistico e fantastico insieme, occorre ribadire. Giacché basta osservare le didascalie di cui il libretto è costellato, minuziosissime per scene e ambienti, effetti naturali e simbolici, gesti e perfino suggerimenti psicologici, per comprendere come Weber si ricollegasse da un lato a una quotidianità borghese fatta di piccole e ingenue cose, in un paesaggio contadino realisticamente definito e circoscritto, dall’altro invece prestasse orecchio al richiamo del sentimento cosmico della natura, con le sue atmosfere selvagge e talvolta orrorose, per far lievitare la musica verso una dimensione trascendente, di sogno o di immaginazione, in contrasto con la realtà e nello stesso tempo da essa saldamente generata. La duplice dimensione, realistica e soprannaturale, in cui quest’opera vive, non è semplicemente una convenzione del teatro, ma l’essenza stessa di un modo di concepire la vita nella sua pragmatica concretezza e di trasfigurarla in un altro formato: l’una e l’altro lontanissimi tanto dalla storia intesa come palestra sublime di eroi quanto dalle grandezze del mito.
La leggenda del cacciatore che viene a patti con le potenze infernali per migliorare la propria condizione (il rango di guardaboschi) e conquistare con il rispetto della comunità l’amore che già gli è destinato è una variante di un tema antico quanto le favole, che ritorna continuamente in differenti contesti, trasformandosi in rielaborazioni più o meno colte (il Faust di Goethe ne è naturalmente l’apice).

Carl Maria von Weber

La fiaba popolare fissa questo argomento in situazioni esemplari e in personaggi tipici, con vesti che cambiano a seconda delle tradizioni e dei livelli: nell’opera di Weber il cacciatore si chiama Max ed è un tenore eroico, la
promessa sposa Agathe, soprano “serio”. E poiché la vicenda è immaginata in un villaggio contadino sulle montagne, boeme o tedesche che siano, al termine della guerra dei Trent’anni (anche se poi in realtà gli ambienti sono identici a quelli borghesi dell’epoca di Weber e sembrano uscire un po’ dai quadri del Biedermeier un po’ dalle visioni oniriche della pittura romantica), ecco che i personaggi di contorno saranno un principe saggio, Ottokar, un padre gioviale in registro di basso, Cuno, un cacciatore buono e sciocco, Kilian, e uno cattivo e astuto, Caspar; più una seconda, più leggera figura femminile, Ännchen, che è forse l’unica concessione alla tipologia dell’opera del tempo, peraltro magnificamente personalizzata da Weber sia nelle arie che nei pezzi d’assieme.
A questi personaggi, perfettamente a loro agio nella comunità che li esprime e che li allieta con cori e danze (sfondi e primi piani si alternano con calibrati trapassi da interni domestici a esterni en plein air), vanno aggiunte le due figure che nell’opera rappresentano gli opposti, astratti principi del bene e del male: l’Eremita da un lato e Samiel, detto il cacciatore nero, dall’altro. Essi sono come sospesi sull’azione, incombenti, in un misto di credenze religiose, superstizioni e paure, dove il sogno è fin troppo eloquente tramite di smarrimenti e fantasmi, sulla festosa, sana positività dello spirito popolare, ossia del mondo contadino; che pure da quelle ricercate apparizioni trae alimento per turbarsi e mettere alla prova le ataviche consuetudini che lo governano (solo vincendo la gara di tiro Max potrà impalmare la sua amata: questo lo spunto iniziale).
Che il male sia l’altra faccia del bene, e il demoniaco alberghi anche nell’intimità della pace domestica, perfino tra le pareti delle case di abete adorne di cimeli di caccia e dominate dai ritratti degli avi, di lì espandendosi e facendo provare più di un brivido nel misterioso altrove del regno della natura, è un’ovvia verità che l’immaginazione popolare ha sempre coltivato; in terra tedesca, e nordica più in generale, esercitandola in temi e variazioni d’ogni grado poetico e letterario, nonché figurativo. Quando Weber riprese questo tema poteva certamente giovarsi, oltre a quella primaria, di numerose altre fonti secondarie (dalle fiabe dei fratelli Grimm ai Volkslieder di Herder, agli Arnim e Brentano); ma soprattutto poteva contare sulla certezza che tutte queste fonti, e prima ancora i loro archetipi, avrebbero trovato immediata, totale risonanza nella coscienza del suo pubblico, che le aveva ormai assimilate: soprattutto di un pubblico che da almeno cinquant’anni, ossia da due generazioni cresciute con lo Sturm und Drang, era abituato a sentire come suoi propri i valori di una cultura nazionale assai ramificata e le radici da cui essi provenivano. L’intuizione tanto geniale quanto semplice di Weber fu quella di rappresentare questo mondo stratificato nella cornice del teatro recitato e potenziato dalla musica, senza elevarne arbitrariamente il tono: in modo che tutti vi si potessero riconoscere e perdere.

Non sorprende quindi che al centro del dramma, dopo l’inveramento della trama in un paesaggio rustico animato sì da ruvidi canti di cacciatori, da energiche danze e marce festive, ma anche percorso da ansiose nostalgie (l’arioso di Max scaturente dall’eco sincopata di un valzer nel primo atto) e da infausti presagi (la grande scena e aria di Agathe nella prima parte del secondo atto), si trovi quella scena della Gola del Lupo che trasporta di colpo la vicenda in una dimensione notturna e lunare, quasi metafisica, di agghiacciante tensione drammatica. E se l’episodio dell’evocazione di Samiel da parte del maligno Caspar, con lo scoccare della fatal mezzanotte e il coro degli spiriti invisibili che risponde da varie parti mentre si avvicinano non uno ma due terrificanti uragani, può appartenere ancora alla visione popolare di un immaginario convegno col diavolo, ciò che segue con l’arrivo di Max provoca un vero e proprio corto circuito nella dinamica della scena, accumulando una attesa spasmodica e agendo come se si trattasse davvero di un’esperienza sovrumana. L’accelerazione della musica durante la fusione delle pallottole sembra avvicinare una decisione terribile, scandita dal parlato sovrapposto alla musica e amplificata dall’eco spaventosa dei rumori dell’inferno; il coro della caccia selvaggia precipita questo caos in una furiosa epifania del terror panico (se ne ricorderà ancora, per dire fin dove giunga la visionarietà di Weber, Schönberg nella chiusa dei Gurrelieder). Ma è soprattutto lo scatenamento della natura, la violenza dei suoi elementi e dei suoi abitanti lanciati in una ridda infernale, a dare a questa scena le dimensioni apocalittiche di un’apertura di tutti i sigilli (sette sono anche le pallottole): realizzando, della simbologia romantica, una delle fantasie più care e nascoste. Da ultimo, un tremolo in pianissimo di archi e timpani annuncia improvvisamente il silenzio, dopo il quale, parrebbe, niente potrà essere più come prima. E invece sarà proprio il contrario: lo spirito rigenerato dalla prova ritroverà la luce. Al pari di Mozart e di Beethoven, Weber appartiene ancora a un’epoca in cui non era pensabile né stimabile affidare all’arte una missione negativa.
Si sbaglierebbe dunque a considerare il secondo quadro del secondo atto come un punto di non ritorno; per quanto la sua originalità spicchi in modo netto nell’arco drammatico (è noto del resto che il diavolo spesso esalti gli artisti più dell’acqua santa), anch’esso è funzionale all’economia dell’opera: come un buco nero da cui riemergere per ricomporre, passando dall’incubo alla preghiera (la cavatina di Agathe) e dal sogno al risveglio gioioso (la romanza e aria di Ännchen), l’unità dell’intreccio. Prima del Finale, che quell’intreccio districherà con l’intervento provvidenziale e conciliante dell’Eremita – perché il bene agisce schietto e conciso tanto quanto il male colpisce convulso e tempestoso -, due cori simmetrici a cavallo di un altro cambiamento di scena hanno il compito di riportare la serenità e di annunciare la vittoria, nonostante tutto, dell’innocenza, come si conviene all’indulgenza di un favolistico ottimismo. Il primo, una

canzone nuziale in quattro strofe intonata dalle ancelle della sposa, ha il profumo e la freschezza della quiete dopo il temporale, o meglio il candore immacolato di chi dalla tempesta non sarà mai neppure scosso: il messaggio positivo della fede e della virtù vi è già incantevolmente prefigurato. Il successivo coro di cacciatori di strofe ne ha soltanto due, ma si prolunga sonoramente, tra bicchieri che si toccano e grida di giubilo, in un reiterato fiorire di Jodel, quasi a rassicurare che i fantasmi della notte svaniranno alla prima luce del sole. Sicché prima ancora che attacchi il Finale noi sappiamo già che ci saranno, dopo un’ultima, cara suspense, il lieto fine e la spiegazione, prima concitata, poi sempre più distesa, di tutto l’intrigo: a Max e Agathe, finalmente ricongiunti, basterà un anno per dimenticare. A noi, graziati dall’apologo, non basterebbe una vita per apprezzare l’equilibrio e l’armoniosa dolcezza di questa conclusione.
Tutto quanto siam venuti fin qui esponendo è in fondo solo la vaga premessa al capitolo centrale, che dovrebbe riguardare interamente e soltanto il ruolo della musica. La fluente spontaneità dell’invenzione melodica sia nella pulsante energia dei cori e delle danze sia nella raffinata varietà dei passaggi dal Lied più delicata all’aria più appassionata, dal recitativo al declamato al canto spianato, vuoi nei numeri chiusi vuoi nelle scene d’insieme che quelle forme acconciamente prolungano e sviluppano ove necessario: questo è l’aspetto più immediatamente evidente e riconoscibile dell’ispirazione weberiana. Su questo terreno, nonostante numerosi imprestiti dall’Italia e dalla Francia, dà frutti copiosi e individuali la pianta autoctona, popolare e germanica.
L’accordo miracoloso di tale complessiva riuscita non sarebbe tuttavia spiegabile se Weber non avesse travasato nell’opera tutta la sua maestria di compositore strumentale e una nuova sensibilità, applicata al dramma, per l’armonia, il ritmo e soprattutto il timbro: elemento, quest’ultimo, che davvero mette il sigillo alla patente di un dichiarato sentimento romantico. Il canto che si espande in stile concertante attraverso il dialogo continuo con gli strumenti, talvolta usati solisticamente in virtuosistica gara; il tessuto strumentale che determina una situazione drammatica o uno stato dell’animo; i ritmi sanguigni o sfumati, plastici o ansanti; l’armonia capace di effetti sconvolgenti per mezzo della contrapposizione imprevedibile delle aree tonali: di questi procedimenti, che sottendono una logica di genere strumentale e a questa agganciano il divenire dell’azione, la partitura del Freischütz è addirittura sostanziata. Vi è poi, ancora più sonora, l’affermazione del timbro non soltanto come colore naturale o impasto di tinte, verso la luce o verso l’oscurità, ma come rilievo e panorama morale, valore intrinseco di espressione: di cui i corni e i clarinetti, definitivamente arruolati da Weber alla causa romantica, sono i portavoce più assidui ed eloquenti.

Accanto alla scena della Gola del Lupo, che squaderna tutti gli effetti più mirabolanti della tavolozza orchestrale in connessione con l’esplorazione notturna di una nera atmosfera demoniaca, dove le voci della natura per così dire esplodono dal grembo materno, l’Ouverture, composta quando l’opera era già finita, riassume al massimo grado le tappe di tutto il lavoro, anticipando i motivi principali che risuoneranno nei momenti decisivi dell’opera. Già il salto ascendente d’ottava ripetuto due volte che apre l’Adagio introduttivo sembra rivelare la compresenza di due mondi, il naturale e il soprannaturale, in cui l’azione si avvicenderà; lo stesso celebre motivo dei corni che appare subito dopo eleva uno spunto realistico, il richiamo dei corni dei cacciatori nella foresta, a evocazione di un ordine spirituale: la calma solenne, terrena del mondo interiore, prima che si annunci, nel sinistro tremolo degli archi scandito dai sordi colpi di timpano e dai pizzicati dei contrabbassi, la presenza spettrale delle forze negative dell’aldilà, rappresentate da Samiel. Un oscuro disegno dei violoncelli prepara l’entrata del “Molto vivace”, giocato su due temi: uno in do minore affidato al clarinetto e riferito alle inquietudini di Max, in strenua, drammatica lotta con le potenze tentatrici (ed ecco riapparire il tremolo degli archi, con fagotti, violoncelli e contrabbassi); l’altro in mi bemolle maggiore proprietà del personaggio di Agathe, ardentemente cantato dal clarinetto solo, dolcemente integrato dai violini primi e poi esteso trionfalmente, dopo uno sviluppo di densa concentrazione, a tutta l’orchestra: per suggellare la vittoria del bene.
Dire che nell’Ouverture è raggiunta per via sinfonica l’intera sintesi del dramma equivarrebbe a disconoscere la pregnanza dell’applicazione di quei motivi e dei loro sviluppi al divenire dell’opera, che ne chiarisce le relazioni e il senso solo nel corso dell’azione. Ciò non toglie che alla base della partitura vi sia, programmaticamente, una logica compositiva che ha profonde radici nella dialettica della forma sinfonica e nei principi della musica assoluta. Con questo mezzo, così come aveva fatto prima di lui Mozart, Weber costruisce un universo sonoro che trascende gli ambiti del teatro nel momento stesso in cui ad esso si consegna pienamente per rendere visibili le azioni della musica: scoprendo nella nuova sensibilità romantica ricchissimi tesori per esprimersi nella lingua del suo popolo, idealizzandone le attese e colmandone gli esiti fino a renderli, con più alto compito, universali.

Carlos Kleiber